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E’ un po’ come quando, camminando in strada distrattamente, s’incappa in un ostacolo. Si sbatte la testa. Poi si rimane storditi. O, forse, quelle che Nicola Zingaretti ha utilizzato nel suo post di Facebook sono solo le parole che ricostruiscono la cronaca di una dimissione annunciata. Che non tirasse una bella aria dalle parti del Partito Democratico, per la verità, era abbastanza risaputo. Ma dalla brezza al vento di tempesta ce ne passa. La corsa agli armamenti dei paladini – ex post – dell’ormai fu segretario è già ampiamente cominciata.

Il refrain è quello della responsabilità: secondo molti l’atto del governatore laziale sarebbe un’assunzione di responsabilità. D’altro canto c’è invece chi, come il sociologo e saggista Mauro Magatti, sostiene che “sia una scelta sorprendente e intempestiva”. “Siamo reduci da una terribile crisi di Governo – ricorda il sociologo – il nuovo esecutivo si è appena insediato e il Pd è uno dei cardini della maggioranza. Sicuramente le motivazioni che Zingaretti ha addotto nel suo post sono reali tuttavia, a mio giudizio, non sufficienti per abbandonare un partito in una situazione del genere. Anche sotto il profilo sanitario, visto che la pandemia continua a furoreggiare. Chi fa politica dovrebbe sapere che il clima, all’interno dei partiti, spesso non è irenico”.

Uno dei passaggi critici più significativi nello sfogo di Zingaretti è sicuramente quello nel quale descrive il Pd come un partito nel quale si parla “solo di poltrone e primarie”, quando, continua, “in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni”. “E’ evidente – riconosce Magatti – che il clima dei rapporti politici sia assolutamente degradato. I nostri rappresentanti sembra siano alla spasmodica ricerca di una poltrona: un gruppo famelico che prova a scansare le grinfie dell’insignificanza”.

I quindici minuti di celebrità. Scavando un po’ oltre rispetto alle evidenze che portano a facili constatazioni, il sociologo identifica nelle dimissioni “lo specchio della grande crisi che sta affliggendo tutti i partiti di centrosinistra a livello europeo”. La grande occasione però che i dem vanno perdendo a seguito di questa decisione “è quella di ripensarsi. La pandemia per i partiti doveva muovere a questo tipo di riflessioni interne. Eppure il Pd non le ha fatte: non è stato in grado di costruire una prospettiva altra. E’ il sintomo di una grande involuzione”.

La terapia d’urto però ha un’ambivalenza intrinseca. “O funge da stimolo – dice il docente – e nel partito riescono a sfruttare questo episodio drammatico, ripensando la strategia da qui ai prossimi due anni, oppure c’è il rischio di sprofondare nel baratro”. Se possibile il tema successorio è ancora più difficile. “Va detto che il Pd non pullula di grandi personalità – così il sociologo – e forse bisognerebbe che il segretario, una volta tanto, si dedicasse anima e corpo all’incarico di segreteria, lasciando tutto il resto”.

In lizza però, ci sono personalità che occupano posti chiave sotto il profilo amministrativo. “Sembra che questo sia il tempo degli amministratori – riprende – secondo me, nomi spendibili, potrebbero essere Stefano Bonaccini, Giorgio Gori oppure Andrea Martella. Allargando il campo allo scacchiere europeo anche Paolo Gentiloni e David Sassoli avrebbero qualcosa da dire. Ma forse è meglio stiano al loro posto”. E, a questo punto, che fine fa l’alleanza coi 5 Stelle? “Prima occorre che i 5 Stelle capiscano cosa sono veramente. Pensavo che questo processo potesse avvenire nell’ambito del Conte bis. Tuttavia, ancora oggi, non capisco bene cosa siano: mi sembra sempre di guardare un quadro di Dalì”. Surrealismo. Allo stato puro.

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