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È molto probabile che tra le primissime attività che il nuovo delegato della Nazioni Unite per la Libia, Jan Kubiš, sta portando avanti appena accettato l’incarico ci sia quella di cercare contatti con Washington tra le persone che compongono l’amministrazione del presidente Joe Biden. In particolare è possibile che cerchi buoni uffici tra il dipartimento di Stato e il Pentagono – che con AfriCom conduce un’attività costante di diplomazia militare nella regione e nel Paese. Kubiš potrebbe provare a trovare spazio negli Stati Uniti – dove in realtà è già ben introdotto ma su altri canali – per portare il peso americano sul dossier libico, e perché consapevole che se dovesse riuscirci sarebbe un’operazione formidabile in un momento piuttosto buono.

Un’operazione che però è molto difficile che arrivi nei primi mesi di presidenza Biden (più concentrati all’interno), sebbene il timing sia quello giusto. C’è un sostanziale allineamento verso posizioni più dialoganti dell’intera area Medio Oriente e Nord Africa, iniziato con l’apertura del mondo arabo a Israele e continuato con la riconciliazione delle forze del Golfo – che in Libia hanno trovato per anni uno sfogo della faglia intra-sunnita che divide da un lato la Turchia e il Qatar, posti dietro alla Tripolitania, e dall’altro gli Emirati Arabi e l’Egitto dietro ai ribelli della Cirenaica. Questo spostamento verso la ragionevolezza del dialogo si vede anche nei colloqui che procedono – sotto egida Onu, finora retti dall’americana facente funzione Stephanie Williams – sulla Libia, dove per esempio Paesi come l’Egitto, che tendevano a un approccio guerresco, si sta ponendo in una posizione di negoziato (lo ricorda su queste colonne Alessia Melcangi dell’Atlantic Council).

Il 21 gennaio gli Stati Uniti hanno diffuso per primi una dichiarazione congiunta con Italia, Germania, Francia e Regno Unito con cui accolgono i passi avanti del dialogo libico – che si tiene faticosamente a Tunisi, sotto la sigla Lpdf che sta per Libyan Political Dialogue Forum, e nei giorni scorsi ha trovato la quadra per il meccanismo di selezione per una nuova autorità esecutiva ad interim. La dichiarazione non segna un interessamento americano di maggiore intensità degli Usa – che già in passato hanno preso parte a certi passaggi diplomatici pur restando coinvolti sulla Libia solo sotto l’interesse della lotta al terrorismo; interesse in parte cambiato quando dietro ai ribelli della Cirenaica si è palesata la figura pesante della Russia.

Nel testo della dichiarazione ci sono buoni propositi sul sostegno al processo diplomatico in corso che dovrà garantire le “aspirazioni di tutti i libici di ristabilire la propria sovranità e di scegliere pacificamente il proprio futuro attraverso le elezioni nazionali”; elezioni che l’Onu ha fissato per il 24 dicembre 2021. Inoltre si sottolinea la necessità di mantenere in piedi il cessate il fuoco firmato il 23 ottobre tra forze del governo onusiano Gna e ribelli dell’Est e c’è anche un passaggio sull’unica implementazione possibile: “L’allontanamento di tutti i combattenti stranieri e mercenari”. Teoricamente questo dovrebbe avvenire da domani, 23 gennaio, data fissata nell’accordo di cessate il fuoco, ma è molto difficile che venga attuato.

La Turchia sul lato della Tripolitania, la Russia, gli Emirati Arabi e in parte l’Egitto su quello della Cirenaica, hanno sfruttato il contesto caotico degli scontri per inviare assetti militari. E ora il rischio è che trasformino la loro sfera di intervento in una presenza a tendenza permanente per muovere influenza regionale attraverso quell’avamposto geostrategico che la Libia rappresenta. Per esempio, la Turchia ha recentemente rinnovato la sua cooperazione con Tripoli fino al 2022. È un aspetto molto critico per il processo diplomatico in corso. Recentemente è stato affrontato in un report per la Brookings Institution che sta molto circolando tra le cancellerie dei Paesi che seguono il dossier libico; report in cui Federica Saini Fasanotti ha delineato le tre opzioni in mano agli Usa per aiutare la Libia.

Si tratta di opzioni che passano anche dalla risoluzione del problema delle milizie – interne o esterne – e del gioco degli attori internazionali, aspetti imprescindibili per concretizzare il processo in corso. Dunque: se Washington volesse andare oltre il generale disimpegno e l’interessamento alla Libia solo per il contenimento del terrorismo (opzione uno), allora l’amministrazione Biden potrebbe trasformare l’ingerenza di attori esterni in un ruolo di “sceriffi” (opzione due). Questa ipotesi Saini Fasanotti l’ha già lanciata su Formiche.net: “Trasformiamo i cattivi in sceriffi“, spiegava. L’accordo sarebbe simile a una forza multinazionale in stile osservatore sui due lati, da affidare a Turchia e Egitto, che manterrebbero la presenza e l’influenza nelle regioni libiche di maggiore interesse ma in modo (pro)positivo.

Questa operazione, mossa in collaborazione con l’Onu (non senza rischi di un’opposizione da parte della Russia), servirebbe anche alle leadership di Cairo e Ankara per passare come honest broker agli occhi di una Comunità internazionale che li vede come ambiziosi autocrati. La terza opzione è uno scatto in avanti per gli Usa, che si toglierebbero dal ruolo di osservatori di un’autorità delegata ma si muoverebbero in prima persona. L’autrice lo chiama un approccio “America is back”, dove Washington si intesta il ruolo di regista di una serie di accomodamenti interni via via più importanti che passano dalla gestione della sicurezza – milizie e attori esterni – e dallo smorzare le tensioni intraeuropee sulla Libia, così come quelle tra Paesi arabi. Modo con cui gli Usa possono sincronizzare la politica e ridurre la competizione per proxy giocata sulla Libia.

(Foto: Africom, un incontro tra diplomatici e ufficiali americani e il Gna)

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