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Per abitudine, nel tempo abbiamo associato l’odiosa pratica del caporalato ai lavori agricoli o di piccola manifattura, considerandoli quasi endemici del Sud Italia. Con l’avvento dell’economia e del capitalismo digitale, invece, questa pratica si è diffusa un po’ ovunque nel territorio per quanto riguarda molte delle nuove professioni, soprattutto perché queste sono quasi o del tutto prive di un contesto normativo di riferimento. Una condizione che è caratteristica dei cosiddetti rider, i moderni fattorini digitali che ogni giorno ci consegnano a domicilio pasti, spesa e prodotti di ogni genere. La domanda, che esiste da quando esiste la gig economy, è se questi lavoratori siano dipendenti o autonomi.

Molto spesso, infatti, i lavoratori associati alle piattaforme digitali di consegne a domicilio sono costretti a sottostare a condizioni capestro gestite da un algoritmo che ne determina il ranking, fatte di ritmi, tempi, paghe e condizioni di lavoro al limite della dignità, e in più prive di alcuna sostanziale possibilità di contraddittorio.

Ebbene, di recente, in Italia e in Europa stiamo iniziando ad osservare dei piccoli spiragli di “umanizzazione” di questi rapporti. In queste ore abbiamo letto due importanti notizie. La prima, riguarda l’inchiesta fiscale avviata dalla Procura di Milano che ha l’obiettivo di “verificare se sia configurabile una stabile organizzazione occulta” dal punto di vista fiscale, che è già stata estesa ad tutta Italia.

Nel contesto di questa indagine, il procuratore di Milano Francesco Greco ha dichiarato che “non è più il tempo di dire sono schiavi ma è il tempo di dire che sono cittadini che hanno bisogno di una tutela giuridica”. In conseguenza di ciò, “60mila lavoratori” di società del delivery, dovranno essere assunti dalle aziende come “lavoratori coordinati e continuativi”, ossia passare da lavoratori autonomi e occasionali a parasubordinati. In aggiunta, alle stesse società sono state comminate sanzioni per un totale 733 milioni di euro per mancanza delle necessarie accortezze in materia di sicurezza.

La seconda notizia riguarda l’avvio da parte della Commissione Europea di una consultazione sulla tutela dei rider e degli altri lavoratori delle piattaforme digitali. Lo scopo della Commissione è trovare soluzioni rapide ed operative per trovare un corretto equilibrio tra flessibilità, tutele e la possibilità che lo sviluppo di questo settore – che non va però ostacolato – possa portare ad una nuova precarietà.

Entrambe queste iniziative, di cui la prima è già in uno stadio più che avanzato, possono portare ad un ripensamento del modello di business e di lavoro di queste imprese e delle persone che, nella grande maggioranza dei casi, non sono certo dei lavoratori occasionali eppure non godono di alcun tipo di tutela. È quindi necessario individuare modalità e strumenti opportuni che possano accontentare le esigenze dei lavoratori senza però impedire la crescita del settore nel suo complesso.

L’economia digitale, infatti, non deve necessariamente essere un far west normativo, e questo vale sia per la tutela dei lavoratori sia per quella dei consumatori dei servizi digitali, spesso poco informati o inconsapevoli dei rischi cui vanno incontro. Il legislatore arriva spesso molto dopo l’innovazione, non essendo non solo capace di anticiparla ma anche di accompagnarne la crescita. In questo contesto, più che nell’individuazione di misure tampone, spesso raffazzonate, stirate ed adattate, andrebbe indirizzata l’azione di intervento tesa anche a favorire uno sviluppo sostenibile di un’economia dalle immense potenzialità.

Servono regole per tutelare i rider, senza paralizzare l'economia digitale

Mega-multe da 733 milioni di euro non possono sostituirsi alla regolamentazione di un settore che coinvolge decine di migliaia di lavoratori e milioni di utenti. La Commissione europea ha appena avviato una consultazione sulla tutela dei lavoratori delle piattaforme digitali, il legislatore italiano non può aspettare ancora

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