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Gli Stati Uniti “si immischiano” negli affari interni dell’Uganda, accusa Kampala dopo che l’ambasciatrice statunitense, Natalie Brown, ha tentato senza successo di far visita al candidato alla presidenza e leader dell’opposizione Robert Kyagulanyi, meglio noto come Bobi Wine.

“Quello che [l’ambasciatrice Brown] ha cercato di fare è palesemente di immischiarsi nella politica interna dell’Uganda, in particolare nelle elezioni, per sovvertire [l’esito del] nostro voto e la volontà del popolo”, ha dichiarato in una nota il portavoce del governo aggiungendo che l’americana “non dovrebbe fare nulla al di fuori delle norme diplomatiche”.

È stato lo stesso musicista e leader dell’opposizione a parlare pubblicamente del tentativo di contatto da parte della feluca statunitense, ostacolato fisicamente dai militari che si trovano da giorni davanti alla casa di Bobi Wine – che alle elezioni del 14 gennaio aveva ricevuto un eccezionale 35 per cento di voti, arrivando secondo dietro all’eterno Yoweri Museveni, 76 anni e presidente dal 1986.

Bobi Wine ha scritto su Twitter che l’ambasciatrice è stata allontanata da casa sua dai militari “che hanno tenuto prigionieri me e mia moglie negli ultimi cinque giorni”. Dopo il voto, un corposo dispositivo di forze dell’ordine e militari è stato dispiegato davanti alla sua casa – che si trova in un quartiere settentrionale di Kampala. Il candidato ha denunciato anche ripetute irruzioni, oltre che perquisizioni nelle sedi del suo partito, Piattaforma per l’Unità azionale (Nup).

L’esercito ha sostenuto che il fronte militare di isolamento è stato deciso per garantire la sua sicurezza e quella dei suoi familiari, perché Bobi Wine non ha riconosciuto l’esito ufficiale del voto e si è autoproclamato “presidente del popolo ugandese”, e dunque potrebbe finire vittima di ritorsioni da parte dei supporter di Museveni. Secondo diversi osservatori internazionali l’operazione di contenimento di Bobi Wine è invece un modo per isolarlo in una sorta di arresti domiciliari.

La vicenda rientrerebbe nelle dinamiche comuni in cui un regime autoritario attacca gli attori esterni, identificandoli nella narrazione come nemici da cui intende difendere il popolo, e lo fa per proteggere se stesso dalle opposizioni – e nel caso gli Stati Uniti sono il bersaglio perfetto. L’aspetto interessante è però che anche questa schermaglia retorico-diplomatica può essere inquadrata nel grande confronto geopolitico globale tra Washington e Pechino. L’America cerca di far valere il piano valoriale di libertà e diritti davanti a una Cina che ha penetrato il continente africano a suon di investimenti, chiudendo però più di un occhio sul chi aveva davanti.

In particolare, l’Uganda è uno dei Paesi che Pechino ha usato – ripagandoli con investimenti – per testare alcuni sistemi di intelligenza artificiale come quelli di riconoscimento facciale. La Cina ha venduto apparecchiature a Museveni, che li ha utilizzati per sorvegliare gli oppositori politici e identificare chi partecipa alle proteste. Pechino non si pone scrupoli su certi usi, a differenza di realtà occidentali che devono rispettare quadri etico-giuridici molto sofisticati, e anche per questo si è portata molto avanti su certi campi tecnologici.

È possibile che l’attacco di Kampala a Washington sia un’operazione di narrazione diplomatica che abbia ricevuto spinta anche da parte della Cina. Si ricorderà che il Partito/Stato accusò gli Usa di qualcosa di simile quando una funzionaria della consolato americano di Hong Kong, Julia Eadeh, incontrò, all’inizio delle manifestazioni contro la cinesizzazione del Porto Profumato, alcuni dei manifestanti – che Pechino descriveva come etorodiretti dalla Cia proprio sfruttando quel contatto. Da lì – in particolare, dall’ambasciatore cinese in Italia – partì l’uso della sedi e del territorio diplomatico come terreno di attacco aggressivo da parte delle autorità cinesi (che in quel caso pubblicarono tramite media controllati dal Partito anche informazioni personali sulla donna suscitando lo sdegno degli Usa). Ora Pechino potrebbe usare Kampala per dimostrare che gli americani si intromettono negli affari di altri Paesi e creare un effetto a proprio vantaggio e detrimento dell’immagine Usa.

(Foto: Kampala Dispatch, l’ambasciatrice Natalie Brown)

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