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Più mediatici e più popolari dei partiti d’appartenenza: ufficialmente sono presidenti di Regione ma oramai li chiamano governatori proprio come i loro omologhi statunitensi.

Nei mesi scorsi è intervenuta perfino l’Accademia della Crusca a bacchettare la stampa italiana per l’abuso linguistico. Eppure, la scelta lessicale non è casuale. Il vocabolario della politica muta a seconda della fase storica e in questo caso sembra riuscire a catturare l’essenza di una nuova stagione del federalismo italiano.

La crisi Covid ha infatti offerto un ruolo da protagonisti ai presidenti che, salvo rari casi, sono riusciti a sfruttarlo abilmente. Un elemento che emerge con tutta la sua forza nei flussi elaborati da Swg sulle Regionali appena passate e che dunque merita di essere analizzato approfonditamente.

Partiamo dal caso più emblematico: quello di Luca Zaia in Veneto. La sua lista fa il pieno di consensi (44.6%) pescando dall’astensione (23%) ma soprattutto prosciugando il bacino elettorale del centrodestra (67%). L’exploit del “partito” del presidente si rivela un boomerang per la Lega che nei suoi territori d’origine finisce per raccogliere un magro 16.9%.

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C’è poi Vincenzo De Luca che nelle vesti di governatore-sceriffo non ha fatto sconti a nessuno, neppure al segretario del suo partito (“è andato a Milano a fare i brindisi e siccome Dio c’è si è preso il Covid” disse prendendosi gioco pubblicamente di Nicola Zingaretti).

E così è finito per diventare un fenomeno a sé stante, oltre gli steccati ideologici della politica italiana. Un idolo del “popolo” dei social network, un fustigatore dei vizi italici la cui popolarità va ben al di là della destra e della sinistra (per non parlare del fatto che oggi nessuno più capisce se è De Luca a imitare Crozza o Crozza a imitare De Luca).

La trasversalità del presidente campano si riflette nel consenso riscosso dalla sua lista personale (13,3%). Un cospicuo bottino di voti composto per un quarto dal sostegno degli elettori del centrodestra (25%).

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Stesso copione per Giovanni Toti. I giorni passati a fianco del Cavaliere sono solo un ricordo sbiadito, il presidente ligure è oggi una voce autorevole ed indipendente, a capo di un movimento politico (Cambiamo) che non mancherà di farsi sentire anche in ambito nazionale.

Puntando sul “modello Genova” che ha consentito la ricostruzione del ponte Morandi in tempi record, Toti è riuscito ad apparire come il volto concreto e credibile di un centrodestra di governo lontano anni luce dal sovranismo barricadero.

Non a caso le prime parole meditate sul risultato del voto Toti le ha consegnate al Corriere della Sera, criticando Salvini e la sua scarsa propensione a fare il leader della coalizione anziché del proprio partito.

La sua lista arancione è riuscita così a convincere il 22,6% dei cittadini, con quasi un terzo dei consensi che arrivano da chi alle Europee del 2019 era rimasto a casa.

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Infine, c’è la sorpresa più grande ossia Michele Emiliano. Il presidente pugliese aveva tutti contro: il centrodestra al gran completo, il Movimento 5 Stelle e la candidatura liberal di Scalfarotto voluta da Renzi e Calenda per impedire a tutti i costi la sua rielezione.

Ma la notorietà è prevalsa sulle logiche nazionali ed Emiliano ha fatto un sol boccone di tutti gli avversari (46.8%) con un consenso che va ben oltre il centrosinistra.

A giudicare dai dati sembra dunque di essere tornati all’Italia delle Signorie, tanti potentati locali che rischiano di dare enorme fastidio ai partiti nazionali.

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Il poker di Zaia, Toti, De Luca ed Emiliano. Il barometro di Arditti

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