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“Il carcere? Non sarà una passeggiata”. Ray Wong, ventisette anni, attivista pro-democrazia di Hong Kong, è in esilio dal 2017, quando ha chiesto e ottenuto rifugio politico in Germania, ricercato dalla polizia per aver partecipato a una manifestazione “secessionista”. Fondatore e leader del movimento “Hong Kong Indigenous”, tutt’ora ricercato dalle autorità, rappresenta il simbolo del “fronte duro” della protesta, quello che chiede l’indipendenza politica, culturale, giuridica dalla Cina continentale, e, se necessario, la secessione. Eppure sente sulla sua pelle la notizia dell’incarceramento di Joshua Wong, Agnes Chow, Ivan Lam, leader del movimento Demosisto, condannati rispettivamente a tredici, dieci e sette mesi di reclusione. “Li prenderanno di mira”.

Wong, adesso che succede?

La condanna conferma una cupa realtà: a Hong Kong la persecuzione politica è diventata la norma. Joshua, Ivan e Agnes non sono stati neanche condannati sotto la Legge per la sicurezza nazionale, altrimenti rischierebbero fino a dieci anni in carcere.

Perché si sono consegnati?

Una scelta strategica. L’Ordinanza per l’ordine pubblico, una vecchia legge draconiana di epoca coloniale, permette la riduzione di un terzo della pena se gli accusati si dichiarano colpevoli. Con un sistema giudiziario in mano alle autorità cinesi sapevano di non poter sperare in un equo processo. Tanto vale abbreviare la permanenza in carcere.

Cosa li aspetta dietro le sbarre?

Inutile farsi illusioni. Tutte le testimonianze raccontano maltrattamenti e violenze. Io stesso ho un amico che ha lavorato in carcere per due anni. Quando i secondini sanno che sei un prigioniero politico, ti prendono di mira, non ti trattano come gli altri prigionieri. Ti percuotono, trovano scuse per metterti in isolamento. Wong questo lo sa.

Lei è stato arrestato?

Nel 2016. Mi hanno accusato di aver partecipato a una sommossa e di aver presieduto a una riunione illegale. Nel 2017 sono andato in esilio in Europa, accolto come rifugiato in Germania. Se fossi rimasto avrei rischiato una condanna fino a dieci anni. Un mio collega l’ha fatto e si è preso sei anni, è ancora dentro.

Ora è ricercato?

Sì, ma con altri capi d’accusa. Alla fine di luglio scorso la polizia di Hong Kong ha emesso un mandato d’arresto nei miei confronti sotto la nuova Legge per la sicurezza nazionale. Mi accusano di sovversione e secessionismo.

Il suo movimento e Demosisto sono solo due tasselli di un più ampio fronte di proteste democratiche a Hong Kong, spesso disunito. La nuova legge rende impossibile unire gli sforzi?

È vero, la legge sulla sicurezza non permette più l’organizzazione di proteste regolari, ma questo non vuol dire che gli abitanti di Hong Kong abbiano abbandonato la lotta. Fanno sentire la loro voce in casa e all’estero, dal Canada alla Germania, dall’Australia al Regno Unito, parlano con la società civile. Dobbiamo unirci per farci ascoltare.

Davvero la pressione della comunità internazionale farà cambiare idea al Partito comunista cinese (Pcc) su Hong Kong?

Ovviamente non basta, è il primo step. Devono seguire le azioni.

Quali?

Ad esempio, le sanzioni contro gli ufficiali del Pcc che violano i diritti umani. Funzionano. L’altro giorno la governatrice Carrie Lam ha confessato che per colpa delle sanzioni americane non può più accedere a nessuna banca né fare bonifici, deve accumulare pile di contanti in casa. È un danno enorme. Il Partito è fatto di persone. Se chi si macchia di crimini viene colpito, o se gli viene impedito di nascondere i suoi soldi in Svizzera o in Canada, gli altri ci pensano su due volte.

Cosa vi aspettate da Joe Biden?

Che abbandoni le politiche di engagement difese per decenni dagli Stati Uniti, non hanno alcun effetto e hanno fatto prosperare il Pcc. Non aprono la società cinese, non aprono il suo mercato, sono un danno alla democrazia. Abbiamo visto cosa è successo in Italia, a forza di aperture. Quando il virus è scoppiato, il partito ha montato un’enorme campagna propagandistica sugli aiuti. È un metodo consolidato.

 

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