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E luce fu. Il governo ha infine reso pubblici tutti i 95 verbali del Comitato tecnico scientifico (Cts) sulla gestione del coronavirus in Italia. Dopo mesi di braccio di ferro con la Fondazione Luigi Einaudi, Palazzo Chigi ha deciso di squarciare il velo di opacità che ha circondato finora i resoconti dei suoi tecnici man mano che la morsa della pandemia si faceva più stringente.

Ne viene fuori una drammatica, concitata cronistoria dell’emergenza. Assieme ai timori e al passo di piombo del decisore pubblico nei confronti di un fenomeno nuovo e un’escalation che non poteva trovare tutti pronti, vengono a galla però anche episodi di grave sottovalutazione del pericolo.

La lunga serie di documenti fa luce ad esempio sul rapporto della Fondazione Bruno Kessler che il ricercatore Stefano Merler, il 12 febbraio, ha esposto al ministero della Salute di Roberto Speranza. Un’analisi di previsione, svelata la settimana scorsa da Repubblica, che già presagiva una drammatica evoluzione del virus in Italia: tra i 60mila e i 120mila contagi, 10mila posti letto mancanti, almeno 35mila morti. Rimasta in un cassetto per ben sei mesi (qui il resoconto di Formiche.net), con buona pace della trasparenza.

Di quell’allarmante documento erano invece a conoscenza i tecnici del governo, confermano i verbali appena riemersi sul sito della Protezione civile. Ecco allora la task force del premier darne conto proprio il 12 febbraio, con toni piuttosto allarmanti. Al termine della riunione, cui sono presenti Agostino Miozzo, Giuseppe Ruocco, Francesco Maraglino, Claudio D’Amario, Silvio Brusaferro, Alberto Zoli, Mauro Dionisio, viene messo nero su bianco l’allarme.

Occhio, dicono i virologi dopo la relazione di Kessler: le terapie intensive potrebbero non bastare. “Emerge la necessità di verificare con precisione i dati relativi alla disponibilità locale di posti letto per malattie infettive, rianimazione e altri dati relativi ad attrezzature, staff e quanto necessario ad elaborare ipotesi di scenari di evoluzione dell’epidemia”.

Sulla base del rapporto di Merler, “Scenari di diffusione di 2019-Ncov in Italia e impatto sul servizio sanitario, in caso il virus non possa essere contenuto localmente”, e della “mappatura dell’offerta ospedaliera sul territorio nazionale distinta per disciplina, per tipologia di struttura e distribuzione regionale”, viene allora dato mandato “ad un gruppo di lavoro interno del Cts” di produrre “entro una settimana” un primo “piano operativo di preparazione e risposta ai diversi scenari di possibile sviluppo di un’epidemia da 2019 nCov”. Tradotto: non solo quell’analisi previsionale non viene considerata “una delle tante”, ma dà avvio a un’indagine interna per capire quanto e se il sistema sanitario italiano sia pronto per lo tsunami.

Passa una settimana, ma del “piano operativo” non c’è traccia. Il verbale del 14 febbraio è infatti tutto incentrato su una riunione fra Cts ed Enac per discutere delle misure di protezione per i dipendenti Alitalia. Quello del 18 febbraio sul caso degli italiani rimasti intrappolati a bordo della nave-crociera Diamond Princess. Si va quindi al 21 febbraio: scatta il primo allarme Lombardia, ci sono “casi sporadici in via di conferma”. Del piano operativo, neanche l’ombra.

La messa in allerta della Fondazione Bruno Kessler di inizio febbraio rimane in sordina fino a fine mese. Solo nel verbale del 27 febbraio rispunta fra i tecnici l’urgenza di pensare alle terapie intensive. I dati dalla Cina dimostrano che “il 15%-20% dei pazienti con infezione da Sars-CoV- 2 svilupperà un’insufficienza respiratoria con un grado di severità che va dal lieve al grave”. Di questi, “1/3 svilupperà una condizione patologica critica e tale da richiedere il trattamento in un’area intensiva”.

Il 28 febbraio, mentre la conta dei casi aumenta al Nord e già si predispongono le prime misure di distanziamento sociale e igiene personale per limitare i contagi, ecco di nuovo l’appello del Cts alle regioni: bisogna fare, subito, una mappatura delle terapie intensive. La stessa che era stata chiesta, entro una settimana, il 12 febbraio. “Si ritiene quindi necessario – recita il documento – che le Regioni predispongano un piano di emergenza per la gestione dei pazienti critici affetti da Covid-19, che consenta di garantire idonei livelli di trattamento attraverso un adeguato numero di posti letto di terapia intensiva”.

La richiesta si fa martellante, di giorno in giorno. Il 1 marzo si chiede di attivare “nel minor tempo possibile” un incremento “del 50% dei posti letto in terapia intensiva”. Solo il 2 marzo, 19 giorni dopo il primo allarme, ecco rispuntare il “Piano di organizzazione della risposta dell’Italia in caso di epidemia”, di cui il Cts, alla presenza di Speranza, suggerisce di adottare la “versione finale” sottolineando la necessità di “mantenerlo riservato”. A quale piano si riferiscono? Al piano anti-pandemico adottato dal governo italiano nel 2018 su indicazione dell’Oms? Non è dato saperlo.

Si arriva così ai verbali clou del 7 e 10 marzo, in cui il Cts prima sconsiglia, poi benedice la decisione di Palazzo Chigi di mettere tutto il Paese in lockdown con un’unica zona rossa.

Intanto le terapie intensive iniziano ad implodere. Già il 5 marzo l’Anaao, il più grande fra i sindacati dei medici ospedalieri, sventola bandiera bianca. Nelle tre regioni al centro del ciclone Covid-19, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ci sono 1800 posti letto. Di questi, il 95% è già occupato.

A inizio marzo, nel Nord Italia erano liberi 5 posti su 100. Una conta drammatica. Il resto della storia è noto. Forse, se i primi allarmi non fossero stati ignorati, sarebbe potuta andare diversamente.

 

 

 

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