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Era un’Italia gravida di lutti quella che il 4 novembre di 102 anni fa con la vittoria della Grande Guerra completava il processo di unificazione nazionale. Ed era ancora piena di mestizia quella che, tre anni dopo, silenziosa e composta si assiepava proprio in questi giorni lungo il percorso del treno che portava il Milite ignoto da Aquileia a Roma, con una spontanea manifestazione di cordoglio popolare che non ha più avuto eguali nel nostro Paese.

Eppure, non era un’Italia depressa, spaventata come l’attuale e quasi inebetita dalla quantità di sfide che si trova ad affrontare. Forse la salvava la sua natura contadina, abituata ad avere a che fare con i ritmi della vita e della morte, e un sentimento religioso diffuso che forniva potenti anticorpi alla rassegnazione. Peggio di noi oggi, era ancora alle prese con una micidiale pandemia, la Spagnola, che provocava paurosi vuoti nelle famiglie che già stavano piangendo la perdita o la lontananza dei più giovani, caduti sul Carso o comunque appena usciti dal fango delle trincee.

Ma era, appunto, un’Italia saldamente radicata su valori condivisi e interiorizzati: l’unità, l’indipendenza, la famiglia, la consapevole subordinazione a un bene comune per il quale il dovere (quello che il singolo deve alla comunità) non era ancora stato oscurato dal mantra dei diritti – inclusi i più incredibili – che riducono lo Stato a un fornitore di servizi, dovuti in quanto “pagati” con le tasse. Quei valori hanno retto fino a pochi decenni fa, anche a beneficio della nostra democrazia grazie alla leva obbligatoria che abituava i nostri giovani a sentirsi in debito col Paese, anche se molti riuscivano a “sfangarsela” con qualche scusa o con l’aiuto di un amico potente che li faceva aggregare al Distretto militare più vicino a casa.

Erano, insomma, sentimenti condivisi che non venivano intaccati dalle diverse appartenenze politiche se non superficialmente e per i quali non sarebbe stato concepibile che, ad esempio, un Paese confinante allargasse unilateralmente i propri confini alla vetta del nostro Monte Bianco senza che da destra e da sinistra si elevasse un unico e potente appello alla reazione; o che nostri pescatori venissero sequestrati e trattenuti in uno Stato straniero a poche bracciate dalle nostre coste senza una reazione forte e corale, priva di balbettii e indecisioni; o che un sedicente alleato impedisse all’Eni di effettuare le sue trivellazioni nel Mediterraneo, e magari concentrasse a poche centinaia di miglia da casa nostra migliaia di jihadisti, lasciandoci a malapena e di malavoglia uno strapuntino in un’importante e tradizionale interlocutore come la Libia.

Ora, il ritorno delle paure del Covid galoppante, che speravamo superate, e della crisi economica, politica e militare che ci tocca da molto vicino ci coglie invece stanchi e sfiduciati, costringendoci a una difficile ricerca delle risorse, prima di tutto morali, per far fronte a un futuro problematico. Manca, infatti, l’entusiasmo e l’energia di troppi giovani incoraggiati a cercarsi fortuna all’estero, per la malizia di chi ci vorrebbe semplici cittadini del mondo e non figli della nostra terra alla quale dobbiamo dedicare, prima di tutto, le migliori energie. La scorciatoia del ricorso all’immigrazione per sopperire a questo drenaggio di forze, oltre a non essere rispettosa della nostra realtà e dei sentimenti generalizzati del nostro popolo, non è infatti una strada percorribile. A meno di accettare eventi drammatici come ad esempio la recente strage di Nizza, a opera di un clandestino sbarcato proprio sulle nostre coste poco tempo fa, in nome di un’accoglienza che sembra soltanto una resa. O un suicidio collettivo.

Forse è nella consapevolezza di questa realtà che da tempo si fanno insistenti gli appelli a riscoprire il 4 novembre, quale ricorrenza condivisa nella quale solennizzare la nostra appartenenza a un Paese unito e grande nonostante le difficoltà e con la quale celebrare le ragioni del nostro vivere insieme in quanto italiani, e non perché virtuosi o reprobi, destri o sinistri, cattolici o laicisti. Non sarà il ripristino di una festività soppressa per lasciare il passo ai riti sulfurei di Halloween a restituire le energie perdute a un Paese sfilacciato da rancori contro i quali non c’è nessuna Commissione contro l’odio che tenga, ma sarà comunque un’inversione di tendenza necessaria e da tanti attesa. A partire da quel Soldato senza nome sepolto al Vittoriano che con sgomento assiste all’indifferenza e alla litigiosità dei distratti nipotini di coloro che cent’anni fa lo accompagnarono alla tomba, in un fiume di lacrime e tra irrefrenabili fremiti di orgoglio.

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