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Finora è stata una lunga attesa. Si è andati avanti sulla fiducia: con i vari esponenti governativi che, di volta in volta, rassicuravano. Stiamo facendo tutto il possibile per combattere all’unisono pandemia e crisi economica. Promesse e desideri. Ma nel frattempo nessuna verifica, resa se non impossibile, almeno difficile, da un contesto internazionale che, in qualche modo, sembrava dar ragione alla tecnica del temporeggiamento. Naturalmente si poteva sempre eccepire sul tempo perduto, sulla mancanza di capacità decisionale, sull’eccesso di misure amministrative destinate a susseguirsi a ritmo accelerato.

Senza nemmeno aver il tempo di verificare se il Dpcm del giorno prima avesse avuto gli effetti sperati. Ma erano solo “prediche inutili”. La controprova, nell’immediato, non vi sarebbe, comunque, stata. Costringendo tutti, maggioranza ed opposizione, ai rispettivi nastri di partenza. Questo soprattutto fino a ieri. Perché già da oggi quelle crepe, che già si intravedevano nelle granitiche compattezze, sono destinate ad allargarsi. Non sono più solo le proteste di piazza ad impensierire, specie se a manifestare sono soprattutto esponenti della grande “moltitudine” dei non garantiti. Dall’estero arrivano i primi segnali. Ed essi sono univoci. Sono rivolti tutte al cuore del governo, le cui incertezze programmatiche cominciano ad essere non solo disvelate, ma a divenire oggetto di vere e proprie reprimende.

In un solo giorno, sia la Commissione europea che la Bce sono dovute scendere in campo per dire: “così non va”. Finora il ministro dell’economia, Roberto Gualtieri, aveva potuto giocare in casa. Presentare un quadro economico e finanziario, per i prossimi anni, più che rassicurante, nonostante il Covid-19. Eventuali rischi di peggioramento erano pure contemplati, ma in una sorta di nota a margine. Subito accantonata dall’ottimismo che deriva dall’istinto primordiale del primum vivere. Ed invece è toccato proprio a Paolo Gentiloni, nella sua veste di commissario europeo, di alzare il cartellino giallo non solo sui conti pubblici italiani, ma sull’intera prospettiva della politica economica.

Andrà peggio del previsto. Nella Nadef, Via XX Settembre aveva sperato che la lunga crisi avesse avuto termine nel 2022, quando il Pil avrebbe nuovamente raggiunto i livelli del 2019. La Commissione ritiene invece che per quella data mancheranno ancora più di 3,5 punti di Pil per raggiungere il sospirato equilibrio. Chi dei due avrà ragione è difficile dire. Sennonché i dati appena forniti consentono di mettere meglio in luce le debolezze implicite nelle previsioni governative. Esse facevano, infatti, affidamento su un recupero produttivo maggiore soprattutto per contenere gli effetti negativi della pandemia, dal punto di vista dei conti pubblici. Ed invece anche in questo caso il gelo: il deficit sarà ben maggiore di quello previsto. Lo 0,8 per cento in più (7,8 contro il 7 del governo) nel 2021 e l’1,3 per cento l’anno successivo (6 per cento contro il 4,7 governativo). Sennonché questa previsione è destinata a pregiudicare l’ipotesi di un rientro al 3 per cento (le fatidiche forche caudine di Maastricht) nel 2023.

Ed è qui che si è registrato un secondo uppercut. Al momento sono solo voci, fatte dal “sen fuggire”. Necessarie per preparare il terreno. Si dice che nel board della Bce si stia pensando “male”. Lo riferisce Reuters. In particolare il progetto sarebbe quello di variare il mix di titoli che la banca centrale ha finora comprato, per mettere alle corde quei Paesi che finora hanno “snobbato” gli aiuti europei, perché tanto c’era “madame Lagarde” pronta a comprare una quota dei titoli emessi. Le continue invocazioni da parte di esponenti della Lega, come Alberto Bagnai. Tanto tuonò che, alla fine, fece piovere: verrebbe da dire. Per l’Italia le conseguenze sarebbero micidiali. Al momento la Bce ha in pancia, per il tramite di Banca d’Italia, il 20 per cento dei titoli emessi. Qualcosa come quasi 510 miliardi.

La previsione della Commissione europea corregge anche le cifre della Nadef sul debito. La relativa progressione sarebbe ben maggiore (25 punti contro i 19,9 stimati dal governo) nel biennio di riferimento. Un’eventuale inversione delle prassi gestionali finora seguite dalla Bce avrebbe, per l’Italia, conseguenze deleterie. Governo e Commissione stimano, infatti, che la spesa per interessi sarebbe, al momento, destinata diminuire. Un paradosso: visto che l’entità del debito continua ad aumentare: più di 300 miliardi alla fine dell’anno. Non ne siamo, pertanto convinti, ma conta poco.

Ma se venisse meno il paracadute di Francoforte, non vi sarebbe più trippa per gatti. Il costo del finanziamento diverrebbe, per così dire, “normale”. Più ti indebiti, più paghi. Con quale effetto sulle altre variabili finanziarie è facile prevedere. Si comprende allora quanto stia costando il gran rifiuto nei confronti del Mes: il fondo cui attingere per far fronte ai costi della pandemia. Il grande afflato che ha visto unito quasi il 70 per cento dello schieramento parlamentare, con alla testa i 5stelle. Finora il peso finanziario dei vari Dpcm (salvo gli ultimi due), secondo le valutazioni dello stesso Governo è stato pari, nel quadriennio 2020/2023, a 188 miliardi in termini di indebitamento (il parametro di Maastricht) e di oltre 294 in termini di saldo netto da finanziare.

Parte più che cospicua del fabbisogno finanziario e quindi della liquidità necessaria per sostenere il complesso delle prestazioni della pubblica amministrazione. Compreso ovviamente il pagamento di stipendi e pensioni. Gran parte di quelle spese aggiuntive avevano un rapporto diretto o indiretto con la pandemia. Basti vedere la tabella analitica pubblicata dalla Nadef. Potevano quindi essere finanziate con un prestito specifico, a dieci anni, a bassissimo tasso d’interesse. Unica condizione: un’assunzione di responsabilità. “E perché mai?”: hanno pensato i furbi. Tanto c’è la Bce che ci foraggia. L’hanno pensato ed urlato con tutto il fiato che avevano in gola. Pensando che a Francoforte fossero tutti sordi. Ma così, a quanto sembra, non è stato.

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