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Dalla Cina alla Libia, il bivio per l’Europa (e l’Italia) non cambia. Si può tentare di stare con il piede in due scarpe, nella malriposta convinzione di poter fare da pontiere, mediatore, pivot. Oppure rivendicare un’appartenenza, un’identità, e solo dopo dialogare con tutti gli attori. È questa la via che dovrebbero imboccare Bruxelles e Roma secondo Giampiero Massolo, presidente dell’Ispi, già direttore generale del Dis.

Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha ufficializzato la nascita di un dialogo Usa-Ue sulla Cina. A che condizioni deve partire?

Gioverebbe un rafforzamento dell’identità politica europea, che stenta ad affermarsi. La crisi in particolare ha mostrato la difficoltà di muoversi in autonomia sullo scenario internazionale e nei rapporti con la Cina.

Come se ne esce?

Il primo passo è rafforzare il rapporto transatlantico. Per mille ragioni, oggi, non c’è il clima di fiducia che ne ha fatto la forza nei decenni scorsi. Ma è ancora questo il presupposto necessario per costruire una politica estera europea credibile. Solo partendo da un senso di appartenenza all’Occidente si può dialogare con la Cina.

In che termini?

Non c’è nulla di male nell’avviare collaborazioni con la Cina o di fare un pezzo di strada insieme, purché avvenga senza ledere gli interessi o la sicurezza nazionale. Pensare di issare un muro e non avere rapporti con questo Paese è utopia. Meglio prepararsi e dialogare sicuri della propria appartenenza.

In queste settimane si è parlato molto di risveglio europeo. Vale anche per la politica estera?

Lo spero vivamente. La storia ci insegna che quando si presentano i momenti Hamilton per l’economia, la politica segue. Spero che la sfida per la ripresa dalla crisi sia il preludio di un’identità politica che al momento è appena intravedibile. Sul piano della politica estera, significa anzitutto non procedere in modo randomizzato, ma lavorando a fianco dei nostri partner, a partire dagli Stati Uniti.

Ecco, a proposito. Con chi può lavorare meglio l’Europa sulla Cina: Trump o Biden?

Ormai è chiaro che la Cina è un avversario strategico degli Stati Uniti nella corsa all’egemonia mondiale, e che lo è tanto per le amministrazioni repubblicane quanto per quelle democratiche. Cambiano i modi, non la sostanza. Trump ha scelto la via dell’unilateralismo, si presume che un’amministrazione Biden sia più propensa a consultare gli alleati. Ma credere che possa essere meno intransigente sulla Cina è un’illusione che i Paesi europei dovrebbero scacciare da subito.

Massolo, spostiamoci nel Mediterraneo. Secondo lei l’Europa ha capito che c’è una guerra in corso a pochi chilometri dalle sue coste?

Esiste un problema di lettura della crisi libica. Stiamo assistendo a una serie di geometrie variabili di Paesi non occidentali in grado di utilizzare apparati militari e di intelligence nazionali con modalità lontane se non opposte a quelle delle democrazie europee, più disposte a usare altre armi, come diplomazia, dialogo, economia. Prima si comprende questo, prima si può elaborare una strategia europea per non abbandonare la Libia al suo destino.

Quale strategia?

Bisogna moltiplicare gli sforzi per tessere un reticolo di rapporti bilaterali con chi conta davvero, l’Italia può fare da collante. Francia, Germania, Italia e Stati Uniti devono incontrarsi e stabilire regole di ingaggio e strategia per mettere in piedi una rete di contatto con i Paesi che si spartiscono la Libia.

L’Italia ha davvero ancora una carta in mano?

L’Italia non è facilmente sostituibile. Non dalla Turchia, che non è una potenza tecnologica, né tantomeno da Egitto e Russia. Ha una tradizione, una storia, e, non dimentichiamolo, una grande azienda petrolifera, Eni, da cui dipendono le forniture energetiche della Tripolitania così come da una parte del Mediterraneo orientale. Il dialogo bilaterale fra Roma ed Ankara non è sbilanciato come si vuole far sembrare.

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