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Alla fine il richiamo della foresta si è fatto nuovamente sentire. Di fronte ad una proposta secca, come quella di Ursula von der Leyen (ReArm Ue per 800 miliardi) la sinistra italiana ed alcune componenti della maggioranza di governo hanno risposto prima con un crescente mal di pancia, quindi con un inconcludente balbettio. Netta anche la divisione al loro interno. L’ex maggioranza giallo-verde che si muove nella difesa di un pacifismo, con venature putiniane; il Pd, invece, alla ricerca del pelo nell’uovo. Andrebbe bene la proposta del presidente della Commissione, ma solo se essa fosse rivolta alla costituzione di un esercito europeo. Obiettivo, com’è noto, talmente a portata di mano, che indugiare sarebbe scandaloso.

Parole in libertà. La semplice (si fa per dire) realizzazione dell’euro richiese una gestazione di almeno 10 anni. Dalla crisi del Sistema monetario europeo del 1992, alla successiva accelerazione che, solo nel 2002, portò all’effettiva circolazione della nuova moneta. Quella costruzione fu resa possibile attribuendo ad un organo sovranazionale, come la Bce, poteri di gestione e di controllo, nel rispetto di regole di mercato da tempo codificate. Con l’idea che “l’intendenza avrebbe seguito”. Ossia che la semplice Unione monetaria avrebbe poi favorito il formarsi di una moderna federazione. Tutte cose ancora di là da venire.

È concepibile tentare una simile operazione in un campo così delicato com’è quello delle forze armate, che rappresentano l’armatura pesante dello Stato? L’esperienza storica ci dice di no. Nella formazione degli Stati moderni gli apparati di sicurezza si sono costituiti e modellati solo dopo che il potere politico si era stabilizzato. Si pensi al successo di quei moti rivoluzionari, che portarono alla nascita delle nuove realtà statuali. Ebbene uno dei primi atti delle nuove élite fu proprio quello di riorganizzare esercito e polizia. Donald Trump, che sta sostituendo tutti i vertici delle forze armate e dei Servizi, ne è la più recente conferma.

All’esercito europeo, semmai si farà, si potrà arrivare solo alla fine di un lungo processo che potrà andare avanti solo con il progredire della costruzione politica europea. Senza voler mettere il carro davanti a buoi. Nel frattempo sarà necessario abbattere il più possibile quelle paratie stagne che caratterizzano l’attuale struttura organizzativa degli eserciti nazionali in campo. Cominciare ad unificare la logistica, soprattutto stabilire standard progressivamente comuni a partire dai sistemi di armamento, prevedere esercitazioni congiunte, una struttura di comando a forma di cupola in cui le singole realtà siano parimenti coinvolte. Senza voler sottovalutare le difficoltà. La babele delle lingue, tanto per fare un esempio che caratterizza la realtà europea, certamente non aiuta.

Il fattore tempo rappresenta la pietra tombale di qualsiasi ragionamento organicistico. Di aumentare la deterrenza l’Unione europea ne ha bisogno da ieri. Ogni tentativo di ritardare ancora il suo potenziamento può avere solo una duplice spiegazione: essere il frutto di un semplice fraintendimento, dovuto a mille problemi, compreso un eccessivo tasso di ideologismo, oppure – cosa più grave – essere figlio di un’intelligenza con il nemico. Purtroppo in Italia si riscontrano entrambe le tipologie.

Il pacifismo è stato da sempre una componente importante della cultura politica italiana. Aveva, da un lato, il volto nobile di un cattolicesimo militante, che si nutriva di valori non negoziabili: il rispetto della vita umana a prescindere, il non fare ad altri il male che non vorresti fosse fatto a te, lo spirito di fratellanza che nasce dal credere che siamo tutti figli di un unico Dio. Ma su un versante diverso della società italiana c’era anche una buona dose di opportunismo. Yankee go home, per difendere la giusta lotta del popolo vietnamita, ma giustificazioni pelose per le invasioni dell’Ungheria (1956) e della Cecoslovacchia (1968).

È bene ricordare quei lontani tragici momenti per dare un senso più compiuto alla realtà di oggi. La debolezza del pacifismo italiano sta nella mancanza di una spiegazione. Nessun tentativo di confessare, innanzitutto a sé stessi, le motivazioni che hanno spinto Putin ad occupare prima la Georgia, quindi la Crimea ed infine l’Ucraina. Il Cremlino ha sempre denunciato il carattere aggressivo ed espansionista della Nato. Facile propaganda che poteva aver facile presa sui moscoviti. Ma chi conosce veramente la Nato come europeo, sa benissimo che questa denuncia non aveva né capo né coda. Al punto che prima dell’aggressione russa, la stessa Alleanza si era trasformata in un’associazione dall’incerto destino.

Nulla a che vedere, quindi, con L’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Otsc; in russo): l’alleanza militare, nata nel 1992 su iniziativa russa e formata dalle sei nazioni appartenenti alla Comunità degli Stati Indipendenti: Russia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. In definitiva un bis del vecchio Patto di Varsavia, seppure in formato ridotto e dislocato sul fronte asiatico del vecchio impero sovietico. Rimasto silente fino al 2022, salvo poi intervenire militarmente nel Kazakistan al fine di domare le rivolte interne contro il carovita. Da Putin stesso derubricate a manovre alimentate dall’esterno – in particolare da George Soros – secondo una liturgia destinata a rinverdire le motivazioni fornite per giustificare l’intervento dell’armato rossa a Praga o Budapest.

Ma per tornare ai nostri pacifisti, il vecchio imperialismo italiano degli inizi del ‘900, che Lenin non esitò a definirlo “straccione”, trovava una sua giustificazione nella ricerca di “uno spazio vitale”. Quello di un Paese, come l’Italia, povero di materie prime e con un eccesso, specie nel Mezzogiorno, di popolazione. Per cui conquistare nuove terre significava garantire ad una parte della propria gente un destino migliore. Ma per un Paese come la Federazione Russia, che ha una densità di 9 abitanti per chilometro quadrato (contro i 115 dell’Europa ed i 196 dell’Italia), che senso aveva imbarcarsi in una guerra che dura ormai da tre anni ed ha prodotto centinaia di migliaia di morti?

Questa è la questione più vera che sfugge ai nostri pacifisti. Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri russo e il più stretto collaboratore del Nuovo Zar, ha recentemente ricordato che già nel suo discorso alla Conferenza di Monaco del 2007, Vladimir Putin, aveva spiegato chiaramente la posizione del Cremlino, invitando l’Occidente a comportarsi da pari nelle relazioni internazionali e a “rispettare gli interessi russi”. Che per Putin significavano una cosa ben precisa: garantirgli una zona d’influenza, nella quale l’Occidente non doveva mettere piede. Al punto che la Nato avrebbe dovuto rifiutare qualsiasi richiesta di adesione proveniente dai Paesi appartenenti a quella zona. Insomma una specie di Yalta, seppure in formato ridotto.

È una richiesta possibile, soprattutto accettabile? Sarebbe come aderire a un condominio in cui a una parte soltanto è concesso il diritto all’autodeterminazione. Così mentre l’Italia potrebbe lasciare la Nato e chiedere di far parte dell’Otsc, l’alternativa sarebbe vietata. E infatti il Kazakistan, negli ultimi anni in posizione di sofferenza, pur continuando a far parte dell’Otsc ha assunto con un atteggiamento che ricorda da vicino quello di De Gaulle – la cosiddetta “crisi della sedia vuota” – nei confronti della Cee.

La cosa in sé sarebbe stata meno preoccupante se non si fossero sentite, recentemente, le parole di Dmitri Peskov, secondo il quale: “La nuova amministrazione americana” avrebbe cambiato “rapidamente tutte le configurazioni di politica estera, e ciò coincide in gran parte con la nostra visione”. Cioè quella di Putin di cui il nostro è autorevole portavoce. Difficile avallare una simile supposizione, considerando la storia e la tradizione degli Stati Uniti. Ma, comunque sia, fidarsi è bene. Essere previdenti è meglio. Ed ecco allora perché la proposta di Ursula Von Der Leyen (che non è una guerrafondaia) ha un sua innegabile ragione.

ReArm, perché la proposta di von der Leyen ha una sua innegabile ragione. Scrive Polillo

All’esercito europeo, semmai si farà, si potrà arrivare solo alla fine di un lungo processo. Nel frattempo sarà necessario abbattere il più possibile quelle paratie stagne che caratterizzano l’attuale struttura organizzativa degli eserciti nazionali in campo. Cominciare a unificare la logistica, a partire dai sistemi di armamento, e prevedere esercitazioni congiunte. Senza voler sottovalutare le difficoltà

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