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Cosa c’entra la morale con la politica estera? La difesa dell’interesse nazionale può davvero essere morale o immorale? Sono alcune delle domande che hanno ispirato l’ultima fatica editoriale di Joseph Nye, “Do morals matter?” (Oxford University Press). Professore emerito di Harvard, già presidente della Trilaterale e padre del “soft power”, fondatore della scuola neoliberale nelle Relazioni internazionali, Nye è uno dei più grandi politologi viventi. Oltre a una lunga e onorata carriera accademica, ha alle spalle anche un’esperienza ai livelli più alti delle istituzioni americane, prima come presidente del National Intelligence Council, poi come vice-segretario alla Difesa per gli Affari della sicurezza internazionale con Bill Clinton. In questa intervista esclusiva a Formiche.net spiega perché, a volte, la morale è una lente utile per distinguere amici e avversari. E lancia un monito all’Italia: attenzione alla propaganda di Russia e Cina.

Nye, perché la morale conta?

Per la maggior parte delle persone la politica estera è dettata dall’interesse nazionale e non ha nulla a che vedere con la morale. Io dico: dipende da come definisci l’interesse nazionale. Se riguarda solo il breve periodo, ovvero se è mirato al semplice incasso politico,

  • allora è probabile che la politica
  • estera scada in azioni immorali. Se invece viene delineato con un
  • perimetro più ampio, può includere anche l’interesse di altri.

Un esempio?

Il Piano Marshall dopo la II Guerra Mondiale. Certo, rispondeva a un preciso interesse americano, sottrarre l’Europa alla cortina sovietica. Ma soddisfaceva anche l’interesse dei Paesi europei di rinascere dalle macerie della guerra.

Che c’entra con gli Usa oggi?

C’entra perché affrontando il coronavirus Trump ha scelto di difendere un interesse di breve periodo, il consenso politico, sacrificandone uno di lungo periodo, la salute degli americani. È un mantra insito nel motto “America First”.

Altri applicano lo stesso principio, e usano motti diversi.

Non c’è nulla di male a dire “il mio Paese viene prima”, ma ci sono modi diversi di declinare questo principio. Anche Emmanuel Macron dice “prima la Francia”, ma lo fa all’interno di un contesto europeo e multilaterale, Trump invece solleticando istinti nazionalisti. I leader perseguono sempre l’interesse nazionale, ma c’è modo e modo di farlo.

Nel libro spiega che Trump è estremo, ma non è l’unico. Perché?

Ci sono diversi esempi di presidenti americani che in passato hanno dimostrato una visione limitata della politica estera o raccontato bugie straordinarie, Johnson e Nixon sono un caso di scuola. Ma nessuno lo ha fatto come Trump. Il Washington Post ha pubblicato uno studio: nei primi mille giorni nello Studio Ovale ha detto 15mila bugie, nessun presidente è arrivato a tanto.

Che ruolo giocherà il fattore morale alle prossime presidenziali?

Molto dipenderà dalla natura del leader che sarà eletto. Se Joe Biden rimpiazzerà Trump, ci sono più speranze che la morale torni a contare qualcosa in politica estera, e che il modello di riferimento sia quello del Piano Marshall. Se Trump sarà rieletto, ovviamente, non cambierà nulla.

Intanto sulla pandemia globale è in corso una battaglia diplomatica fra Cina e Usa. Anche questa è da leggere con la lente della morale?

È il segno tangibile del fallimento della leadership morale di Xi e Trump. Xi sta costruendo una narrazione ad hoc per raccontare l’approccio esemplare della Cina alla pandemia. Per farlo, ha censurato la libera informazione e nel primo periodo ha negato la verità. È stato perso tempo prezioso, in cui avremmo potuto salvare vite e limitare la diffusione del virus. Il ministero degli Esteri è perfino arrivato ad accusare l’esercito americano di aver diffuso il virus. Questa, sì, è stata una risposta immorale. Ma anche Trump ha commesso errori.

Quali?

Ha negato la serietà della pandemia durante le prime settimane, sprecando un mese di contenimento ed eventuali test. Poi sia lui che il segretario di Stato Mike Pompeo hanno continuato a chiamarlo “China virus” o “Wuhan virus”. Questa è propaganda e non aiuta ad andare alla radice del problema.

Sarebbe?

Cina e Stati Uniti sono gli unici due Paesi in grado di prevenire insieme la prossima ondata della pandemia. Questi virus non arrivano mai una sola volta. Nel 1918 ha fatto più vittime la seconda ondata di Spagnola della prima.

Una via di uscita?

Raggiungere un compromesso, collaborare sul piano scientifico. E aiutare i Paesi del terzo mondo che non hanno i mezzi finanziari e tecnologici per far fronte da soli al prossimo round. Sarebbe un gesto umanitario, ma nell’interesse nazionale di entrambi, perché aiuterebbe a prevenire la nascita di riserve di coronavirus in giro per il mondo.

C’è chi considera la competizione fra Cina e Usa una nuova Guerra Fredda.

Credo che parlare di Guerra Fredda sia sbagliato. Durante la Guerra Fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica non c’era spazio per il commercio e tantomeno per i contatti sociali. Questi invece abbondano nei rapporti fra Cina e Usa, ogni anno circa 370mila studenti cinesi studiano nelle università americane.

Come definirla allora?

Diciamo che esistono delle aree di competizione pura, come il Mar Cinese Meridionale o Taiwan, e altre dove gli Stati Uniti non possono ottenere quel che vogliono senza l’aiuto della Cina e viceversa, come il cambiamento climatico, o il coronavirus.

Quale delle due prevale?

Nel mio libro distinguo due concetti: “Il potere sugli altri Paesi” e il “potere con gli altri Paesi”. Cina e Usa non possono difendere il loro interesse nazionale ricorrendo solo al primo. Il multilateralismo è ancora un asso vincente.

Poi c’è la competizione nel settore tech, e la corsa della cinese Huawei alla conquista della rete 5G. Anche qui esistono spazi di collaborazione?

Questa è davvero un’eccezione. Abbiamo una sufficiente esperienza con Huawei e con la sua dipendenza dal Partito comunista cinese (Pcc) per capire che permettergli di costruire la nostra rete di ultima generazione significa assumersi dei rischi enormi. Questo è uno di quei casi in cui l’approccio a somma zero è l’unico possibile.

Quindi?

Non tutta la competizione nel mondo tech deve essere affrontata così. Ci sono aree, come lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale nel campo medico, dove è auspicabile un accordo fra Cina e Usa. La più grande difficoltà nei prossimi mesi sarà fare due cose allo stesso tempo, competere in un’area e collaborare in un’altra. Il mondo in cui viviamo funziona così.

Fra Cina e Usa è in atto una mobilitazione per aiutare l’Italia contro il coronavirus. La Casa Bianca ha annunciato l’invio di equipaggiamento medico per un valore di 100 milioni di dollari.

È una classica operazione di soft power.

E di fronte agli aiuti da Russia e Cina l’Italia come dovrebbe porsi?

Dovrebbe accettare gli aiuti e farne buon uso, ma senza ingoiare la propaganda di cui sono circondati. Cina e Russia stanno inviando aiuti per ottenere un vantaggio geopolitico. Il migliore dei mondi possibili per l’Italia è accoglierli e rispedire al mittente il resto.

Da Covid-19 a Huawei, le relazioni Usa-Cina (e l’Italia…) secondo Joseph Nye

Di Franco Bechis

Intervista esclusiva al politologo di Harvard e padre del “soft power”. Morale e interesse nazionale possono e devono convivere. Covid-19? Trump e Xi hanno colpe, la censura cinese ha fatto perdere vite umane. Huawei? Un pericolo nella rete 5G. Italia? Accetti gli aiuti russi e cinesi, ma non la propaganda

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