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Le elezioni presidenziali del 9 agosto in Bielorussia possono essere annoverate tra quegli avvenimenti capaci di produrre numerosi interrogativi sugli equilibri futuri. La rivendicazione della vittoria da parte di Aleksandr Lukashenko, al timone dal 1994, con cifre da capogiro (80,23%), si contrappone alle dichiarazioni del comitato elettorale di Svetlana Tikhanovskaya sull’affermazione della propria candidata, con numeri speculari ai risultati considerati ufficiali. Gli scontri scoppiati nella notte dopo la chiusura delle urne a Minsk e in altri centri del paese si sono caratterizzati sin da subito per vedere l’adozione, da parte delle forze dell’ordine, di misure repressive particolarmente violente – simili a quanto accaduto in Francia durante le manifestazioni dei gilet gialli – che però non hanno disperso le migliaia di manifestanti radunatisi nelle piazze.

Il sesto mandato del presidente bielorusso si apre all’insegna dell’incertezza, perché, nonostante il riconoscimento della vittoria da parte di Cina, Russia, Azerbaigian, Kazakistan e Uzbekistan, non vi è chiarezza su quali passi verranno intrapresi in politica estera ed economica, nello scenario dell’era del coronavirus. E se nel caso cinese gli asciutti auguri di Pechino non sembrerebbero dar adito ad interpretazioni, nel telegramma di Vladimir Putin a Lukashenko vi sono alcuni passaggi non privi di interesse, sottolineati in grassetto dalle agenzie di stampa governative russe. Infatti, il testo del telegramma recita:

“Conto sul fatto che la Sua attività di governo possa garantire un ulteriore sviluppo delle relazioni bilaterali russo-bielorusse in modo vantaggioso per entrambi in tutti i campi, un approfondimento della collaborazione nella cornice dell’Unione di stati, la crescita dei processi di integrazione sulla linea dell’Unione economica eurasiatica e della Csi, e anche i rapporti militari e politici nell’Organizzazione del patto di sicurezza collettiva. Questo indubbiamente risponde agli interessi nazionali dei popoli fratelli di Russia e Bielorussia”.

Il Cremlino pone sul tavolo i temi principali per un rilancio delle relazioni con Minsk, che negli scorsi giorni hanno conosciuto il punto più basso mai raggiunto nella storia: l’integrazione nell’Unione di stati, garanzie politico-militari sugli interessi russi nel paese e un’adesione incondizionata all’agenda di politica estera di Mosca. Condizioni che negli scorsi anni Lukashenko non ha accettato, ma che ora vengono esplicitamente e pubblicamente avanzate da Putin. Il sostegno espresso via telegramma dal Cremlino si aggiunge a una serie di eventi susseguitisi nelle ultime 24 ore che farebbero pensare comunque a varie posizioni presenti nell’establishment politico russo a proposito della situazione bielorussa.

Mentre a Minsk iniziavano gli sconti, vi è stata una manifestazione vera e propria davanti all’ambasciata bielorussa in centro a Mosca. Centinaia di cittadini bielorussi, in fila per esprimere il proprio voto, dopo le 20:00 (ora di chiusura delle urne), hanno di fatto bloccato il traffico su ulitsa Maroseika, via a pochi passi dal Cremlino, senza esser praticamente toccati dalle forze dell’ordine, quando in contesti diversi anche assembramenti minori sarebbero stati sgomberati. Tra i manifestanti era presente Veronika Tsepkalo, moglie di Valery – già diplomatico con ambizioni presidenziali, poi rifugiatosi all’estero – e molto attiva fianco a fianco con la Tikhanovskaya nel corso della campagna elettorale.

La copertura degli scontri nelle città bielorusse da parte dei media russi di ogni orientamento è stata anch’essa unanime – da Ria Novosti e Sputnik (espressione del governo russo) a Meduza e Mediazona, la cronaca delle manifestazioni, come anche la denuncia di percosse e arresti ai danni dei giornalisti russi, tra cui il corrispondente di Sputnik Evgeny Oleynik e l’inviato di Meduza Maksim Solopov. Proteste nei confronti dell’atteggiamento delle autorità bielorusse nei confronti degli inviati son venute, oltre che dalle redazioni delle testate, anche da Margarita Simonyan, influente capo di Russia Today, e dall’Unione dei giornalisti russi, nota per le proprie posizioni filo-Cremlino. Chiarimenti sugli arresti sono stati richiesti dal ministro degli esteri russo Sergey Lavrov a Minsk, mentre nel pomeriggio di lunedì Vladimir Zhirinovsky, funambolico leader noto per le sue sparate scioviniste e surreali dell’Ldpr, si è presentato davanti all’ambasciata bielorussa per dichiarare come per Lukashenko sia iniziata la propria agonia politica.

L’impressione è che in realtà non vi sia ancora chiarezza su quali scenari possano aprirsi nella regione, e come verranno affrontati da Mosca. Il silenzio statunitense, probabilmente dettato dai momenti di difficoltà interna attraversati negli ultimi tempi, colpisce perché viene dopo mesi di riavvicinamenti con Minsk. Nella confusione di queste ore, emerge però un fattore – il sostegno a Lukashenko da parte degli apparati di sicurezza bielorussi. Probabilmente questo appoggio potrà garantire il ristabilimento dell’ordine pubblico nelle città, ma non garantisce una duratura stabilità che dovrà esprimersi in termini di condizioni sociali ed economiche, e nelle relazioni estere. Inoltre, Svetlana Tikhanovskaya ha dichiarato, attraverso il proprio comitato elettorale, di non voler intervenire nelle proteste – fatto che indica la scarsa influenza della candidata sulla mobilitazione post-elettorale ma anche una poca chiarezza di obiettivi da parte di quello schieramento.

Basterà la forza dei blindati a garantire la tenuta di Lukashenko? Un interrogativo al quale probabilmente le risposte potranno essere diverse nei prossimi mesi, intanto ulteriori manifestazioni sono state annunciate per la serata di lunedì.

 

Foto: Kremlin.ru

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