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Annunciato il Next Generation Eu (che, peraltro, ha un percorso lungo e tutto in salita prima di essere approvato dai 27 Stati dell’Unione europea, Ue, ed ancora più lungo prima di diventare erogazioni concrete), è iniziato il carosello dei ministri che propongono cosa fare con i fondi europei addizionali. Si odono anche proposte bizzarre come quella del ministro dell’Economia e delle Finanze e del ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale che intenderebbero utilizzarli per ridurre la pressione tributaria- obiettivo “buono e giusto” ma che non può essere fatto con finanziamenti temporanei dato che richiede un taglio strutturale (sempre che non la si voglia aumentare di nuovo, dopo i tre-quattro anni di erogazione dei contributi europei).

Nessuno sino ad ora ha parlato di progetti specifici (formazione, addestramento, supporto a lavoro autonomo o a creazione di impresa) per una grande risorsa che l’Italia, più di altri Stati Ue, utilizza poco e male, come si è chiaramente visto prima dello smart work reso necessario dal lockdown: le donne. Ed è un problema tutto italiano. Basta leggere Il Lavoro delle Donne saggio curato da Emilio Reyneri e pubblicato, prima della pandemia, dalla Fondazione Adapt, creata in memoria del carissimo, e indimenticabile, Marco Biagi, assassinato 18 anni fa dalle Brigate Rosse.

Nonostante sia molto aumentata negli ultimi anni, la partecipazione al mercato del lavoro delle donne, in Italia rimane la più bassa dell’Ue. Anche se negli ultimi dieci anni la situazione è migliorata, nel Belpaese, stando ai dati Istat, a livello occupazionale resta ancora un divario considerevole fra uomini e donne: ciò si traduce in un tasso di occupazione molto più basso per le femmine rispetto ai maschi: 49,5% contro il 67,6% degli uomini.

Ciò si deve principalmente all’infimo tasso di occupazione delle donne poco istruite in particolare nel Mezzogiorno; infatti, le diseguaglianze regionali, per età e livello di istruzione sono molto forti e, quel che è peggio, in aumento. Il part-time ha dato un grande contributo al recente aumento dell’occupazione delle donne meno istruite, ma è ancora poco diffuso. Nonostante la caduta della fertilità, l’abbandono del lavoro delle madri è molto frequente per le gravi difficoltà della conciliazione tra occupazione ed attività domestica; la conciliazione si affida per lo più all’aiuto dei nonni.

Tra le donne è cresciuta più l’occupazione dipendente di quella autonoma, ove sono crollate le coadiuvanti e aumentate le professioniste e le atipiche, sicché si afferma la tendenza alla polarizzazione tra stabilità (pubblico impiego) e precarietà (tempo determinato, collaborazioni). La segregazione orizzontale rimane bassa, mentre quella verticale è tuttora importante, soprattutto per i percorsi di carriera. Il gender pay gap è apparentemente ridotto a causa dell’ancor forte selezione per livello di istruzione delle donne occupate, ma la reale penalizzazione retributiva non differisce da quella media europea e dipende largamente da un effetto di discriminazione.

Recenti dati Istat, inoltre, hanno evidenziato a novembre 2019 una crescita degli occupati che aumentano di 41 mila unità. Inoltre cresce il dato occupazionale delle donne, con un +35 mila rispetto ad ottobre 2019.Il dato congiunturale senz’altro incoraggiante, ma stravolto dalla pandemia. Molta strada rimane da fare sia per favorire l’accesso delle donne al mondo del lavoro che per superare il gap retributivo di genere e per rafforzare misure di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Il lockdown ha mostrato la difficoltà delle donne, soprattutto di quella con bambini piccoli a cui è stata preclusa la scuola, di conciliare tempo di vita e tempo di lavoro. Ciò ha un costo elevato per tutta Italia: numerosi studi indicano, infatti, un maggior benessere e un miglior funzionamento del sistema economico e del mercato del lavoro quando il coinvolgimento attivo delle donne cresce. L’ aumento del tasso di occupazione femminile può rappresentare uno stimolo fortissimo a quello del Pil.

Inoltre, le donne non scontano solo difficoltà in accesso al mercato del lavoro. Le convenzioni sociali e gli stereotipi sul ruolo della donna, per esempio nelle cure familiari o nella cosiddetta “economia domestica”, hanno conseguenze significative anche una volta che questa prima barriera sia stata scavalcata; benché la Costituzione e i contratti di lavoro, formalmente, garantiscano alla donna lavoratrice, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore, questa situazione è, nei fatti, disattesa. Non mancano proposte di legge all’attenzione del Parlamento. Sono mirate a superare le forme di organizzazione del lavoro di fatto pregiudizievoli per l’avanzamento professionale delle donne lavoratrici, per promuovere una migliore articolazione tra attività lavorativa e tempi di vita e per favorire il reinserimento nel mondo del lavoro della donna dopo la maternità.

Il ministro delle Pari Opportunità, Elena Bonetti, per ora tace sul fiume di denaro in arrivo dall’Ue. Mi auguro che stia predisponendo programmi e progetti.

Perché il Recovery Fund ignora le donne? L'analisi di Pennisi

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