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Alla ripresa autunnale dell’attività diplomatica a Mosca si sono fatte insistenti le voci di imminenti dimissioni del ministro degli Affari esteri, Sergej Lavrov; forse l’uomo che dopo Vladimir Putin maggiormente ha personificato le forti trasformazioni degli ultimi due decenni della Russia.

Quella delle possibili dimissioni è un’indiscrezione – mai confermata — che in realtà gira da tempo e si ripropone con cadenza quasi regolare.

La vera notizia da commentare è il fatto stesso che queste voci siano tornate proprio ora con tanta insistenza.

Il che ci permette di fare alcune considerazioni sia sullo stato della politica interna che estera di Mosca – per comprendere cosa ci aspetta nell’immediato futuro.

La vicenda ci riporta ai cambiamenti delle élite al potere in Russia durante la legacy di Putin, che ha visto negli ultimi due decenni avvicendarsi a rotazione alla guida del Cremlino diversi settori della funzione pubblica.

Ciascuno è stata chiamato a essere front runner rispetto all’emergenza e alla priorità del momento.

È noto che la prima élite a prendere per le mani il Paese, dal 2000 al 2005, proveniva in gran parte dall’intelligence; chiamata all’epoca a mettere in sicurezza “alla russa” il Paese, dato oramai per perso in mani straniere.

Meno noto è che nel lustro seguente (2005-2010) i servizi di sicurezza lasciarono la prima fila di azione alla categoria emergente dei giuristi, chiamati ad affrontare la nuova priorità di governo, ovvero creare una classe media conservatrice per ottenere un consenso reale alla leadership del Paese.

Segue una terza fase di governo che dal 2010 coinvolge direttamente le politiche estere del Paese che tornano a essere al centro dell’agenda politica dopo un lungo periodo di predominanza della dimensione interna.

Con la Russia intenzionata a riprendersi un ruolo primario su scala internazionale, l’élite che emerge è quella dei diplomatici – insieme all’intelligence, tradizionale corpo di eccellenza nella funzione pubblica russa – intesi non solo come dipendenti del potente ministero di riferimento (il Mid), ma anche come alumni dell’Università̀ ministeriale MGIMO, tornata agli antichi splendori.

Pochi curricula professionali come quello di Lavrov racchiudono in sé questa parabola di crescita e consolidamento della politica estera russa; che ha messo al centro la negoziazione diplomatica – anche dura – ma finalizzata all’accordo e al consolidamento della rete di alleanze.

L’ipotesi più semplice che circola sulle voci di dimissioni narra di un Lavrov che a 70 anni compiuti di cui 16 passati nella stessa funzione avrebbe da tempo chiesto a Putin di potersi ritirare a vita meno stressante.

I tempi e la disciplina diplomatica russa sono notoriamente durissimi e portano ad un logoramento anche i vertici (si veda la morte per infarto nel 2017 a soli 64 anni di Vitaly Churkin, diplomatico russo di primissimo piano e ambasciatore alle Nazioni Unite – carica peraltro ricoperta a sua volta da Lavrov per un decennio).

Secondo un’altra chiave di lettura più attenta alla politica interna, l’argomento di una sostituzione di Lavrov potrebbe invece essere più sofisticato e provenire da alcuni settori della stessa alta funzione pubblica russa.

Che sono in fibrillazione per il cambio di governo repentino voluto da Putin nel gennaio 2020 ma soprattutto per le riforme costituzionali e nuove leggi federali che promettono a breve un complessivo giro di nomine e ricollocazione dei vertici tecnico-burocratici che impone un generale riposizionamento nelle varie caselle disponibili.

Da questo punto di vista, l’anzianità di servizio di Lavrov che è in carica ininterrottamente dal 2004 ed è uno dei veterani assoluti dell’establishment, ne fa un inevitabile target strumentale a prescindere dai meriti che pure gli vengono riconosciuti.

Senza dimenticare che il Covid stesso ha rilanciato il tema del rinnovamento dei vertici, dando nuova forza ad una generazione di giovani seconde file di tecnocrati che spingono per affermarsi in prima persona e che pensano sia arrivato il loro momento.

Tuttavia, più interessante e anche preoccupante per l’Occidente è la chiave di lettura internazionale del motivo di una eventuale uscita di scena di Lavrov (che, se del caso, avverrebbe entro la fine dell’anno e probabilmente non prima delle elezioni presidenziali americane)

Tra i nomi che sono indicati tra i suoi possibili successori spicca quello di Sergey Naryshkin, capo dell’intelligence russa all’estero, citato di recente nelle cronache per avere avanzato l’ipotesi che l’avvelenamento di Alexey Navalny sia stata una messa in scena orchestrata da servizi stranieri per discreditare il Cremlino.

Il fatto che un capo dell’intelligence sia uscito allo scoperto con inconsueta visibilità ha portato molti commentatori ad assecondare la voce che lo vuole papabile per dirigere il ministero degli Esteri.

Se si avverasse, ciò significherebbe non solo un mero avvicendamento di leadership ma anche un probabile cambio di rotta alla politica estera russa.

Naryshkin a capo della diplomazia di Mosca, oltre a segnare un ritorno nelle primissime file governative dell’élite vicina all’intelligence (sempre importante ma rimasta nel backstage negli ultimi 15 anni) segnerebbe una fase di chiusura a scapito della dimensione negoziale perorata fortemente da Lavrov, che pure nel caso ucraino non gli aveva risparmiato critiche da parte dei falchi nel Cremlino.

È un trend che diventerebbe cronico incrociandosi con altre decisioni geo-politiche di contrapposizione, prima tra tutte quella ventilata da Alexander Lukashenko di chiudere le frontiere bielorusse con Lituania, Polonia e Ucraina e lasciare aperte solo quelle con la Russia.

La minaccia va letta nella ferma determinazione del presidente bielorusso di non farsi da parte in nessun modo, ma getterebbe le basi per una nuova Cortina di ferro che riguarderebbe tutto lo spazio europeo, amplificata a sua volta dalla generale forte riduzione dei voli di linea a causa del Covid-19.

Il fronte Occidentale, dal canto suo, non pare curarsi – ma forse nemmeno percepire – il rischio di una pensionamento di Lavrov e lo considera una questione interna russa.

Imperterrito continua a tenere con la Russia toni duri e puri senza spazi negoziali o a fare azzardi diplomatici (come l’accoglienza da capo di Stato data al Parlamento Europeo da David Sassoli alla oppositrice bielorussa Svjatlana Cichanoŭskaja).

Sono parole e gesti che altro non fanno che dare argomenti ai falchi di Mosca promotori di un ritorno alla contrapposizione netta nei confronti dell’Europa filo-atlantica. Come se la Storia non ci avesse insegnato abbastanza che il muro-contro-muro con i Russi non ha mai pagato.

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