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Sembra passata un’era da quando Donald Trump ribattezzava Marco Rubio, suo avversario alla nomination repubblicana, “little Marco”, e lui gli ribatteva che non avrebbe reso l’America “di nuovo grande”, l’avrebbe resa “arancione”. Sono invece passati solo quattro anni, e con loro tanta acqua sotto i ponti.

Oggi il senatore della Florida è stato scelto per guidare la Commissione di Intelligence del Senato. La decisione è stata formalizzata dal leader dei repubblicani al Senato Mitch McConnell. Il predecessore di Rubio, il senatore Richard Burr, ha dovuto lasciare il posto a seguito di un’indagine degli agenti federali. L’accusa, da lui fermamente smentita, è che abbia approfittato della crisi per comprare centinaia di migliaia di dollari in azioni, utilizzando le informazioni ricevute dagli 007.

Rubio sarà “acting chairman“, cioè presidente “temporaneo”, ma il titolo non deve ingannare. Nelle settimane e nei mesi a venire la commissione, uno degli organi più potenti di Capitol Hill, avrà un lavoro di amministrazione tutt’altro che ordinaria. A partire dalla nomina del prossimo direttore della National Intelligence, il centro di coordinamento di 17 agenzie di intelligence, che dovrà ricevere l’ok dei commissari. Il nome per la successione di Richard Grenell è quello del texano John Ratcliffe, che piace a Trump e soprattutto ai Repubblicani.

Senza contare che nell’aula dell’Intelligence Committee del Senato approderà, fra una settimana, il quinto e ultimo rapporto sull’indagine del Russiagate, per appurare una volta per tutte se ci sia stata o meno collusione fra la campagna di Trump e il governo russo. È un tema delicato: Trump ha calato il sipario sull’indagine bollandola come “fake”. Ora vuole rilanciare con l’Obamagate, accusando l’ex presidente di una congiura nei suoi confronti. Una brutta notizia dalla Commissione intelligence può mettere i bastoni fra le ruote alla campagna elettorale.

Rubio ha sempre reso chiara la sua posizione sulla vicenda. Le interferenze russe ci sono state, e sono state provate dall’indagine del procuratore speciale Robert Mueller. Altro conto è parlare di collusione del team Trump: un’accusa che, a dire il vero, continua a navigare in alto mare nelle carte del Russiagate.

Se un tempo il nome di Rubio doveva preoccupare il tycoon, oggi i rapporti sono cambiati. Sono rimasti di stucco i reporter americani che hanno seguito la campagna elettorale del 2016, quando hanno visto il senatore applaudire e twittare festante, nel giugno del 2019, al lancio della nuova campagna di Trump, con tanto di hashtag #KeepAmericaGreat.

Se Rubio si è guadagnato la simpatia del presidente, notoriamente “volubile” ma anche ben disposto a riabilitare ex avversari (è il caso, fra gli altri, del repubblicano Lindsey Graham), lo deve anche al suo allineamento con Trump in politica estera, a partire dal tema più urgente dell’agenda presidenziale: i rapporti con la Cina.

Nessuno come Rubio è più inviso al governo cinese a Capitol Hill. Negli ultimi tre anni non ha perso occasione di mettere nel mirino il Partito comunista cinese (Pcc). Ha messo la firma su una fila interminabile di disegni di legge al Senato volti a restringere l’influenza di Pechino all’estero, dalla presenza di Huawei nel 5G alla proprietà intellettuale, e molti sono arrivati (e sono stati firmati) sulla scrivania dello Studio Ovale.

Su questo fronte Rubio si è conquistato una fama bipartisan al Senato. Non è un caso che applauda alla sua nomina il democratico (e anti-trumpiano) Mark Warner, senatore della Virginia. “Rubio è stato un grande partner sui temi di intelligence e sicurezza nazionale”, ha detto questo martedì. Si vedrà se Trump ha un problema in meno con la nomina di Rubio al Senato. Una cosa è certa: il governo cinese ne ha uno in più.

Marco Rubio, chi è il senatore repubblicano che fa paura a Cina e Russia

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