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Ogni giorno ci svegliamo in sistemi democratici sempre meno resilienti. E sempre più spesso non vediamo ciò che ci turba, che ci butta in una paura che sentiamo percorrerci ma che non riusciamo a razionalizzare.  Eppure la paura andrebbe elogiata, mai negata: il rischio della sua negazione, la storia ci insegna, è l’avvento del terrore.

La paura aumenta quando le istituzioni democratiche, certo da preservare, faticano a rispondere ai bisogni (soprattutto primari) dei cittadini. Lì si insinua la paura più cattiva, quella riguardante il futuro. Che ne sarà di noi ? Questo sembrano domandarsi in molti.

L’istituzione fallisce quando è auto-referenziale.

Assenza di comune

Dentro, nel profondo delle istituzioni democratiche, sembra erodersi progressivamente il senso-del-comune. La crisi de-generativa delle istituzioni è, anzitutto, crisi del loro senso, significato, del loro essere “casa” di ciò che le supera (la vita fuori dal palazzo). Per quanto ovvio, il comune qui invocato è politico, è la tensione a mediare i rapporti di forza e gli interessi, (ri)congiungendo gli opposti e non rincorrendo pulsioni di massa, e a elaborare visioni storiche in grado di “incarnare” localmente i processi planetari mantenendo coesione sociale.

È nel lavoro politico che si può guardare alla communitas. Essa, infatti, non è un automatismo che si realizza da una “parola buona”. Communitas non nasconde una magia bensì un paziente lavoro di (ri)legatura di comunità umane sempre più frammentate nel profondo, pressoché incapaci di relazione e di dialogo. Communitas porta dentro l’immunitas: attenzione, però, a elevare l’immunitas (il bisogno di immunizzarci nel difenderci) oltre misura. È fondamentale il lavoro politico: qual è la “giusta” misura dell’immunitas, chi la stabilisce ? La difficoltà è grande.

Il “comune” è in quel realistico mistero che sta “in” ciascuno di noi e “tra” ciascuno di noi e l’altro, nel talento dell’istituirci e dell’istituire percorrendo l’altro che, pur non essendo noi, è la parte di noi che ancora non conosciamo. Le istituzioni democratiche, quelle dalle quali avvertiamo una distanza, si soddisfano di gestire l’evidente. Ma è l’emergente, ciò che non vediamo, che davvero conta: così, sclerotizzandosi sull’evidente e negando l’emergente, le istituzioni falliscono.

Innovazione, interculturalità, dialogo

La paura passa, senza mediazione, dal livello impalpabile dei giochi globali nei nostri corpi. In mezzo c’è la pesantissima assenza di una politica che non fa più il suo mestiere. Volentieri ci dividiamo tra globalisti e localisti, entrambe categorie da dimenticare.

È questo il tempo nel quale ritornare alle differenze, essere interculturali, prendendo il buono di tecnologie che possono regalarci nuove frontiere di prossimità. Dialogare non è solo fermarci a riflettere sulle complessità-dei-mondi ma, finalmente, prenderne atto, comprenderle e (com)prenderle, sporcarci le menti e le mani nell’affrontare in noi il meticciato-che-siamo.

L’ordine non può più essere solo top-down e, soprattutto, non può più essere pre-determinato. Le distanze tra la vita che scorre e le decisioni che vorrebbero determinarla non è più possibile. Nel cambio di era ci vuole una “biopolitica affermativa”, del comune-in-noi.

L’alba delle istituzioni è nel dialogo.

(Professore di Istituzioni negli Stati e tra gli Stati e di History of International Politics, Link Campus University – Editor, The Global Eye, http://globaleye.online – autore di “La grande metamorfosi. Pensiero politico e innovazione”, Eurilink University Press 2020,  http://eurilink.it/prodotto/la-grande-metamorfosi-pensiero-politico-e-innovazione/)

L'istituzione fallita

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