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Le imprese dell’ecosistema industriale che gravita intorno alla produzione di autovetture rappresentano ancora oggi il più grande datore di lavoro privato nel mondo occidentale. Basterebbe ciò per convincere che la crisi profonda in cui versa oggi questa industria richieda un’analisi attenta delle motivazioni del perché con la “macchina che ha cambiato il mondo” si sarebbe dovuta prestare maggiore attenzione, comprendendo nel tempo storico le relazioni strategiche tra manifattura, territori e comunità e non rincorrendo le dinamiche evolutive del settore.

Il riferimento al titolo della famosa ricerca del Mit è evocativo del ruolo che l’industria dell’auto ha avuto nel caratterizzare la nostra epoca e il suo anno di pubblicazione, il 1990, consente di avere un punto di riferimento intorno a cui delineare una sintesi delle problematiche attuali. L’industria dell’auto moderna nasce negli Usa con l’intuizione di Ford di produrre in serie un bene durevole complesso, quale appunto un’autovettura, risultato dell’assemblaggio di un numero estremamente elevato di componenti standardizzati. L’evoluzione nell’organizzazione produttiva avviata da Ford consente da un lato di incrementare i livelli produttività reale, ma dall’altro cambia radicalmente il significato attribuito al tempo e allo spazio contribuendo più di ogni cosa a modificare cultura e stili di vita in senso moderno.

Dopo la Seconda guerra mondiale si affermano sostanzialmente due percorsi tecnici e organizzativi. Il primo, statunitense ed europeo, prevedeva un’automazione sempre più spinta in grandi impianti di assemblaggio con l’obiettivo prioritario di accrescere la produttività, ma anche di ridurre la conflittualità sindacale. In Italia esemplificativa in tal senso è la realizzazione dello stabilimento di Cassino, in cui si trova l’unità di montaggio più automatizzata al mondo per l’epoca. Il secondo è quello giapponese che mira a costruire, applicando la filosofia del kaizen, un mix ideale tra la capacità dell’uomo di migliorare continuamente e l’adozione di processi produttivi e macchinari sempre più sofisticati. La ricerca del Mit certifica la vittoria del modello giapponese, che da un lato realizza la qualità totale dall’altro, promuovendo strutture lean e offrendo una soluzione ai problemi di eccesso di capacità produttiva che l’automazione spinta generava con maggiore facilità. L’enfasi sul modello organizzativo trascurava tuttavia come il mondo fosse già cambiato da tempo con l’avvio della globalizzazione moderna e come le strategie competitive delle imprese si muovessero ormai su piani differenti.

Nel nuovo assetto globale caratterizzato dal passaggio da un regime di cambi fissi a uno di cambi flessibili (1971), dalla rottura dell’equilibrio di Yalta (1980) e dal conseguente nuovo approccio ai movimenti commerciali e finanziari, si assiste infatti a un crescente processo di commoditizzazione, cacofonico neologismo che deriva dalla locuzione francese commodité e che indica la capacità di realizzare facilmente qualcosa di molto complicato. La commoditizzazione erode progressivamente la struttura degli ecosistemi industriali occidentali grazie all’opzione che si crea per i principali player storici dell’automotive di aprire o spostare i propri stabilimenti di assemblaggio in aree del globo in grado di offrire condizioni favorevoli in termini di prezzo relativo dei fattori produttivi (dalle materie prime al lavoro) e che consentono di gestire da una posizione di forza le relazioni con i fornitori di componentistica.

In sintesi estrema, se si guarda ai diversi segmenti lungo la dimensione verticale, dall’entry level delle utilitarie fino ad arrivare a quelli premium e del lusso, diviene così progressivamente e via via nei diversi segmenti più difficile produrre in Paesi a valuta forte (sostanzialmente: dollaro, sterlina, yen ed euro) per vendere in Paesi a valuta debole, che tra l’altro sono quelli che sperimentano livelli di domanda in crescita, non limitata al solo potenziale di sostituzione. In questo quadro, l’auto elettrica rappresenta un evento di portata esplosiva. Si tratta di un mercato che, a prescindere dalle motivazioni che ne giustificano l’opportunità, è creato in via amministrata, con una tecnologia consolidata e un sistema di conoscenze diffuso e che richiede peraltro un numero di componenti estremamente inferiore (nell’ordine di un sesto) degli autoveicoli con motore endotermico. Questi elementi rendono possibile la nascita di nuove imprese, quali Tesla e Byd, in grado di realizzare un prodotto complicato usufruendo delle moderne tecnologie della robotica e dell’intelligenza artificiale in direzione opposta alla lean production e competere con operatori tradizionali, gravati da strutture produttive retaggio degli investimenti passati e sicuramente ridondanti per tale nuova produzione.

Per inerzia, i risultati della dinamica descritta non sono stati visibili almeno fino al 2009, anno nel quale il Giappone rappresentava ancora il principale Paese in termini di volumi produttivi, ma stanno emergendo drammaticamente nell’ultimo periodo, con l’arretramento dei produttori europei e l’affermazione di nuove aree produttive, quali in primis India e Thailandia, accanto alla Cina che ospitava ormai nel 2023 poco meno della metà della produzione mondiale.

La sua crisi è tuttavia solo il sintomo più evidente del declino degli ecosistemi industriali europei e delle difficoltà della sua struttura socioeconomica. Se come osservò il premio Nobel Herbert Simon “ciò che un uomo non può fare, non sarà fatto, non importa quanto forte sia l’impulso a farlo”, le società nel loro complesso sono in coerenza chiamate a trovare una declinazione della sostenibilità che sia diacronica e realistica. Ciò richiede per i Paesi europei di trovare un rinnovato consenso sul nostro modello insediativo, che richiama la scelta su cosa produrre e consumare, su dove vivere e su come muoversi.

Formiche 210

Automotive, quale bussola per Bruxelles. Risponde il prof. Pozzi

Di Cesare Pozzi

L’industria che gravita intorno alla produzione di autovetture è ancora oggi il più grande datore di lavoro privato nel mondo occidentale. Ma ora stanno emergendo, con l’arretramento dei produttori europei, nuove aree produttive, quali in primis India e Thailandia, accanto alla Cina che ospita ormai nel 2023 poco meno della metà della produzione mondiale. L’analisi di Cesare Pozzi, Professore di Economia industriale presso la Luiss Guido Carli e Università di Foggia

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