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Gigino Di Maio come Justin Trudeau. Il ministro degli esteri e leader pentastellato italiano, come a suo tempo il premier canadese, è stato condannato dalle élite progressiste d’oltreoceano – in un articolo comparso sul New York Times – in nome del politically correct, con l’accusa infamante di blackface, cioè di scherzare con il colore della pelle dei neri.

Il povero Trudeau (peraltro uno tra i più devoti osservanti dei cliché politically correct) aveva osato in tempi remoti, prima di entrare in politica, vestirsi da africano per una festa in privato. Di Maio ha osato condividere su Facebook alcuni tra i meme che lo avevano preso in giro per la sua abbronzatura particolarmente vistosa, mettendolo “nei panni” dei più vari personaggi celebri afroamericani. Per questo due giornaliste di evidente origine italiana gli hanno ricordato che in America chi si rende “colpevole” di simile oltraggio è spesso costretto a dimettersi dalle sue cariche.

Sarebbe sbagliato classificare sbrigativamente l’episodio come una bizzarria. Nel mondo anglosassone, e in molti Paesi europei, la condanna come “offensive” di battute, vignette, sketch, discorsi pubblici, prodotti dell’entertainment è diventata ormai una cappa asfissiante. Tanto che molti autori ed attori hanno sostenuto a più riprese che ormai fare comicità è ormai sostanzialmente impossibile.
Tutte le ideologie odiano l’umorismo. Perché l’umorismo presuppone una mente libera da condizionamenti e da timori, irriverente verso qualsiasi autorità. A maggior ragione strutturalmente incompatibile con umorismo e comicità è l’ideologia oggi egemone tra le élite occidentali, il politicamente corretto. Perché si tratta di una visione del mondo relativistica fondata sulla retorica. Perché ha al suo centro l’idea tribale di minoranze “protette” a cui si deve rendere obbligatoriamente omaggio. E perché è intrisa del più profondo, farisaico perbenismo borghese.

È impossibile far ridere o sorridere senza usare stereotipi, senza ridicolizzare o mettere in caricatura, in qualche misura, culture, gruppi, stili, comportamenti, condizioni esistenziali. Ma per l’ideologia “diversitaria” ogni caricatura è razzista, discriminatoria, esalta le diseguaglianze, promuove l'”imperialismo culturale”. La rigida divisione in gruppi “sacri” arriva fino all’assurda idea secondo cui solo il gruppo di volta a volta in questione dovrebbe poter parlare di sé, raccontarsi, interpretare i propri membri, pena l’accusa di appropriazione culturale. Per quanto riguarda poi le minoranze razziali, l’ascesa del movimento Black Lives Matter ha impresso poi una ulteriore spinta alla dinamica neo-tribale, e alla censura sistematica di ogni tentativo di uscirne.

Ora quella borghesia “liberal” ben rappresentata dal Nyt, sempre intenta a fustigare le presunte malefatte dell’Occidente nei confronti del resto del mondo, si stupisce che in qualche parte dell’Occidente stesso si possa ancora impunemente scherzare su un tema tabù come il colore della pelle. Come è accaduto nei giorni scorsi sui social media in Italia, in un grande movimento creativo spontaneo generato dalle immagini del Di Maio iper-abbronzato, che ha generato i più fantasiosi collage del ministro italiano reinterpretato come “africano”, o “afroamericano”. Immagini assolutamente innocenti, non animate minimamente dalla volontà di offendere individui o culture. E che semmai erano ispirate dall’intenzione di sorridere proprio dell’Italia, dell’eterna commedia della sua classe politica, delle eterne contrapposizioni tra Sud e Nord… Uno spirito ben compreso dallo stesso ministro, che ha ripreso con apprezzabile autoironia alcune di quelle creazioni.

Ma proprio questo ha scandalizzato le due giornaliste del Nyt. Che, con il dito alzato e lo “stiff upper lip” tipico del bacchettonismo anglosassone hanno sbrigativamente catalogato Di Maio e i tanti italiani che avevano scherzato sul tema come razzisti. Aggiungendo il parere di un intellettuale somalo secondo cui “l’Italia non ha ancora fatto i conti con il proprio passato coloniale e fascista”, e le caricature in questione fanno il paio con la “violenza verso i migranti”.

Ma in realtà se c’è qualcuno che non ha ben “fatto i conti” con il proprio passato questi sono proprio i “liberal” americani. Perché fare i conti con la storia significa comprenderla, assimilarla, superarla e magari persino scherzarci su, non chiamarla continuamente, grottescamente davanti ad un tribunale morale a rispondere dei propri peccati: cosa che vediamo invece fare sempre più spesso, troppo spesso, da parte dei movimenti di protesta e degli intellettuali di sinistra statunitensi.

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