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C’è una cosa che il presidente turco teme quasi quanto il calo del suo consenso, ultimamente piuttosto ammaccato, ed è il ricorso a un programma di aiuti del Fondo Monetario Internazionale. Questo, semplicemente per due motivi. Il primo è che così la Mezzaluna perderebbe, anche ufficialmente, la fama di grande potenza economica mondiale, rendendo lontani quei tempi in cui era stato proprio Erdogan da premier a chiudere anticipatamente il programma di aiuti con l’istituzione di Washington.

I tempi cambiano e le fortune delle nazioni anche. E dopo una stagione “da leonessa” adesso la Turchia si trova in piena crisi economica e rischia una seconda crisi della valuta, ancora più grave di quella dell’estate del 2018. Per questo sta bussando alle porte delle banche centrali dei Paesi amici. L’obiettivo è quello di fare entrare capitale straniero sufficiente per evitare il collasso della moneta nazionale. Soldi che Ankara dovrà trovare il modo di restituire, ma che sembrano molto meglio di qualsiasi accordo con Washington.

La notizia che ci sono colloqui in corso con Giappone e Gran Bretagna, arriva direttamente dall’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo fondato dal presidente Erdogan e dal 2002 alla guida del Paese. “Stiamo valutando con alcune banche centrali gli strumenti finanziari più idonei”, hanno spiegato dalla formazione. Con altri Paesi, come il Qatar o la Cina, già particolarmente esposti nella Mezzaluna, potrebbero essere potenziati i flussi attuali, che attualmente sono di 1,7 miliardi con Pechino e 5 miliardi con Doha.

Il tempo è poco e la situazione è aggravata dalla complessa situazione economico finanziaria causata dal coronavirus. A preoccupare, sono in particolare le riserve in valuta estera della Merkez Bankasi, la Banca Centrale turca, che sarebbero crollate da 40 a 26 miliardi di dollari. Il presidente Erdogan ha come sempre tranquillizzato tutti e parlato di complotto ai danni del Paese. Per lui, ricorrere a un accordo con un’istituzione internazionale come il Fondo Monetario Internazionale, significherebbe anche non poter più praticare una politica “allegra” sui mercati interni, mantenendo i tassi di interesse particolarmente bassi.

Il ministro delle Finanze, Berat Albayrak, incidentalmente anche genero del presidente Erdogan, continua a garantire che la struttura economica del Paese è solida. Ma i suoi tour per convincere investitori vecchi e nuovi a puntare sul Paese fino a questo momento si sono rivelati un fallimento.

Ci sono poi le ricadute politiche. La Turchia ha impiegato mesi a riprendersi dalla crisi valutaria del 2018. Una seconda ondata oltre a compromettere l’economia in modo irrimediabile influirebbe sul consenso del presidente, che già lo scorso anno ha perso le elezioni amministrative in diverse città del Paese fra cui Istanbul e la capitale Ankara.

Vi spiego perché la Turchia ha bisogno di soldi, ma non vuole quelli del Fmi

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