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La famigerata Via della Seta – il luogo simbolico del confronto geopolitico e propagandistico tra Occidente e Cina, infuocatosi con l’epidemia – transita attraverso una delle aree più calde del pianeta, non solo climaticamente: i Paesi del Golfo. Se l’Europa vuol ritrovare una sua centralità geopolitica, il rapporto con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altri Paesi della penisola araba diventa oltremodo cruciale.

Da un lato, c’è la questione petrolio. Le fluttuazioni del prezzo del greggio, in caduta libera prima per la guerra commerciale tra Arabia Saudita e Russia e poi per il crollo della domanda mondiale, potrebbero sperimentare una ripresa nella seconda parte dell’anno. La prudenza è d’obbligo, ma secondo le analisi di UBS il barile potrebbe tornare sopra i 40 dollari in autunno, una volta riassorbiti i surplus di produzione di queste settimane con l’uscita delle principali economie dal lockdown. In ogni caso, i bassi prezzi dell’oro nero rendono nell’immediato meno conveniente la conversione ecologica e dunque allungano la vita del petrolio come fonte energetica primaria dell’economia mondiale. Con essa, la centralità dei Paesi produttori.

Questi ultimi, tuttavia, sono sempre più consapevoli dell’urgenza di una diversificazione e delle loro economie. La dipendenza fiscale degli Stati produttori dalle esportazioni di petrolio è ancora troppo elevata: se cala il prezzo del petrolio, mancano soldi nei bilanci pubblici e aumentano disoccupazione e reddito, e con essi la possibilità di continuare a investire nel welfare e nello sviluppo di settori alternativi, dal turismo alla logistica passando per l’industria non-oil. Il principale Paese della regione, l’Arabia Saudita, sarà l’attore fondamentale di questa transizione, già faticosamente iniziata da qualche anno. I settori più “facili” su cui puntare – il turismo e il settore aereo – sono però tra i più in difficoltà al momento, per la rarefazione dei traffici internazionali. Per un Paese popoloso come il regno saudita, poi, turismo e aerei potranno assorbire solo una parte del prodotto interno potenziale: dovrà svilupparsi un’economia capace di far crescere la manifattura e i servizi, anche per rendere più robusta la domanda interna.

Per l’Unione europea e i governi nazionali, la sfida è accompagnare la regione del Golfo in questa transizione da economia estrattiva a produttiva. Favorire l’indipendenza economica dal petrolio avrà risvolti positivi per il clima del pianeta, aiuterà la modernizzazione, la pluralizzazione delle società e la stabilità dell’area. Aprirà e irrobustire rapporti economici per le nostre aziende, che saranno quanto mai affamate di quote di mercato nel dopo-virus. Ancora, eviterà che l’unico attore politico esterno nella regione sia la Cina. Con gli Stati Uniti sempre meno presenti sullo scacchiere mediorientale (effetto anche della quasi raggiunta indipendenza petrolifera), il ruolo del gigante orientale è destinato a crescere. Non siamo l’unico Paese cui la Cina ha inviato in pompa magna una delegazione di medici e operatori sanitari, accompagnata da retorica e ammiccamenti diplomatici.

Quel che accadrà nel Medio Oriente in generale e nella penisola arabica in particolare sarà cruciale per la storia e gli assetti economici e geopolitici del prossimo decennio: l’Unione europea, i governi nazionali, la classe imprenditoriale e l’opinione pubblica del Vecchio Continente hanno il dovere di occuparsene.

Non solo petrolio. Perché il Golfo è cruciale per l'Europa

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