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Non sono un giornalista e, quindi, non spetterebbe a me dire come si pubblica una notizia. Non sono neanche un direttore o un editore di un quotidiano (lo sono, in realtà, ma di una rivista giuridica) e, quindi, non spetterebbe a me stabilire cosa sia una notizia e cosa no. Suppongo lo sia tutto ciò che è in grado di far vendere.

È quindi nella veste di semplice lettore che mi chiedo come mai, a ogni tragica vicenda di cronaca, si debba assistere al solito susseguirsi di dettagli macabri e notizie per lo più irrilevanti al solo scopo di solleticare l’attenzione dell’opinione pubblica.

La chiamano “pornografia del dolore” (trauma porn) e consiste nella pubblicazione di contenuti – articoli, foto, video, eccetera – che sfruttano traumi altrui per generare scalpore o attenzione.

Si tratta di un fenomeno che riguarda diversi ambiti (pensiamo alle raccolte fondi) e, nel 2016, era stata anche presentata una proposta di legge avente a oggetto la “disciplina della comunicazione pubblica destinata alla promozione di iniziative di solidarietà”.

Nella proposta di legge – che non riguardava il tema della cronaca giudiziaria – si prevedeva che i contenuti della comunicazione finalizzata a promuovere la raccolta di fondi fossero rispettosi di una serie di principi, tra i quali il rispetto della “sensibilità pubblica”, i principi di “umanità, neutralità, imparzialità e non discriminazione”, la garanzia della completezza e della correttezza delle informazioni” nonché l’opportunità di “evitare l’uso di immagini o di testi potenzialmente scioccanti e lesivi della dignità della persona” nonché quelli tali da “sfruttare indebitamente la miseria umana nuocendo alla dignità della persona, generando sentimenti di paura o grave turbamento, ovvero rappresentando in modo esasperato la natura del problema sociale oggetto della comunicazione”.

La cronaca non è ovviamente immune a tale deriva e, solo per rimanere ad alcune delle più recenti vicende, la spettacolarizzazione del dolore ha accompagnato la narrazione della tragedia del Mottarone o degli omicidi di Carol Maltesi e di Giulia Tramontano (su cui non ci sono stati risparmiati neanche i più macabri dettagli).

La spettacolarizzazione ha caratterizzato, nelle ultime settimane, il racconto – quasi minuto per minuto – dell’omicidio di Giulia Cecchettin, su cui l’informazione ci ha propinato, in ordine sparso, i seguenti dettagli: durante il viaggio che lo portava in Italia, Filippo Turetta aveva la barba incolta e indossava una tuta; dormiva con un orsacchiotto e questo sarebbe sintomo di una regressione infantile; l’analisi della sua grafia avrebbe fatto emergere poco spazio tra le lettere, il che sarebbe la prova di una sorta di “bulimia affettiva”; una volta arrivato in carcere, avrebbe chiesto ansiolitici e libri; fonti della biblioteca del carcere avrebbe indicato addirittura i titoli dei libri: “La figlia del capitano” di Aleksandr Puškin e un giallo di Agatha Christie (“ma non sarebbe stato chiarito se i titoli siano stati scelti dal detenuto o se sia stato il giudice a volere che Filippo li leggesse”); gli altri detenuti si sarebbero lamentati dei privilegi concessi al detenuto “vip”; inizialmente i genitori di Turetta avrebbero rinunciato a vedere il figlio in carcere in attesa di ricevere adeguato supporto psicologico; poi, al primo incontro con i genitori, Turetta sarebbe apparso tranquillo e non avrebbe versato una lacrima; il papà di Turetta, in un’intervista, avrebbe chiesto come faccia una psicologa a definire suo figlio “mostro”; pochi giorni dopo l’arresto, su Facebook sarebbero stati creati gruppi nei quali si mostrava solidarietà nei confronti di Turetta; la sorella di Cecchettin si è fatta un tatuaggio; la nonna ha presentato un libro proprio il giorno della autopsia sulla nipote e avrebbe addirittura sorriso durante un’intervista; durante i funerali, Turetta non avrebbe acceso la televisione e gli sarebbero stati tolti anche i giornali.

E poi trasmissioni televisive e articoli nei quali si riportano il numero di coltellate inferte, i disperati tentativi della povera Giulia di sottrarsi all’aggressione o le condizioni in cui è stato ritrovato il corpo.

Se certe reazioni sono giustificabili e umanamente comprensibili da chi ha subito la perdita di una persona cara – così come è comprensibile la reazione dei familiari ai quali i medici comunicano una tragica notizia – sfruttare il loro dolore per pure esigenze di marketing è un’operazione che dovrebbe essere condannata a reti unificate.

Come dicevamo, il caso Cecchettin non è il primo e, certamente, non sarà l’ultimo.

Vi abbiamo assistito nel caso della funivia del Mottarone, quando, a seguito della diffusione del video che riprendeva i tragici momenti del crollo, la Procura aveva diramato un comunicato con il quale si invitavano tutti, inquirenti e organi di informazione, al doveroso rispetto per le vittime e per l’intera comunità.

Analogo invito era stato rivolto, nel caso Cecchettin, anche dal procuratore di Venezia, il quale, pur comprendendo l’attenzione suscitata da un caso così grave, non aveva risposto a domande su particolari “che servono solo a creare ulteriori tensioni e problemi” e aveva ricordato “il diritto di Turetta, al pari di ogni indagato, a essere trattato in maniera obiettiva, sia dalla Procura, che garantisce i diritti delle parti in causa in questa fase, sia dall’opinione pubblica” al fine di garantire i diritti all’indagato e la serenità alle parti.

Se il diritto a informare ed essere informati è sacrosanto e non può essere messo in discussione, occorre però ricordarsi (così almeno evitiamo di dimenticarlo) che esiste – o quantomeno dovrebbe esistere – una netta differenza tra ciò che è diritto di cronaca e ciò che è spettacolarizzazione e voyeurismo.

Contro la pornografia del dolore. L’appello dell’avv. Stampanoni Bassi

Di Guido Stampanoni Bassi

Il diritto a informare ed essere informati è sacrosanto ma esiste una netta differenza tra cronaca e voyeurismo. Il commento di Guido Stampanoni Bassi, avvocato e direttore della rivista Giurisprudenza Penale

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