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La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha affermato: “Condanniamo con fermezza le rinnovate violenze avvenute oggi contro le comunità cristiane in Nigeria. La libertà religiosa è un diritto inviolabile: chiediamo al governo nigeriano di rafforzare la protezione delle comunità cristiane e di tutte le comunità religiose e di perseguire i responsabili di questi efferati attacchi. L’Italia esprime tutta la sua vicinanza alle vittime e alle comunità in Nigeria che oggi si sentono in pericolo per il loro credo religioso”.

Il messaggio arriva in un momento in cui l’attenzione internazionale sulla Nigeria sta crescendo rapidamente. L’Italia considera Abuja un interlocutore nel percorso del Piano Mattei e osserva con attenzione gli sviluppi, consapevole che eventuali tensioni religiose potrebbero incidere sulla stabilità dell’Africa occidentale e, in modo indiretto, sulle proprie priorità strategiche nella regione. La dichiarazione di Meloni si inserisce così in una cornice che combina la condanna delle violenze con un richiamo ai principi e, allo stesso tempo, con la prudenza di chi intende preservare un dialogo positivo con un partner africano rilevante.

La pressione degli Stati Uniti e la risposta di Abuja

A Washington il tono è diverso. L’amministrazione Trump ha rimesso la Nigeria nella lista dei “Countries of Particular Concern” per violazioni della libertà religiosa e sta valutando un pacchetto di misure che potrebbero includere sanzioni economiche, un rafforzamento della cooperazione antiterrorismo e, in casi estremi, opzioni di natura militare.

Jonathan Pratt, responsabile per l’Africa al Dipartimento di Stato, ha spiegato al Congresso che gli Stati Uniti stanno lavorando a un piano per incentivare e allo stesso tempo spingere il governo nigeriano a migliorare la protezione delle comunità cristiane, segnalando che il monitoraggio riguarda anche il modo in cui Abuja impiega le risorse di sicurezza e gestisce lo scambio di informazioni con i partner.

Donald Trump ha più volte insistito sul tema, evocando la possibilità di interrompere assistenza e programmi di cooperazione, un approccio che riflette la crescente attenzione della Christian right americana e di parte del Congresso. Queste prese di posizione arrivano in un momento in cui gli equilibri della presenza militare statunitense in Africa sono già delicati, dopo l’uscita da diverse basi nel Sahel e in un contesto in cui la regione è spesso descritta dai funzionari americani come uno degli epicentri del terrorismo jihadista globale.

Dal canto suo, il governo nigeriano rifiuta una lettura che riduca la complessità del Paese alle dinamiche religiose. Il presidente Bola Ahmed Tinubu sostiene che attribuire alle autorità un atteggiamento discriminatorio verso i cristiani non rispecchia la realtà nigeriana, caratterizzata da una lunga tradizione di convivenza tra fedi diverse. Le violenze, osserva Abuja, si inseriscono in un quadro segnato da tensioni etniche, competizione per terreni e risorse, e dall’impatto di gruppi armati come Boko Haram, responsabile di migliaia di vittime tra cristiani e musulmani.

Per mostrare disponibilità al confronto, una delegazione nigeriana di alto livello è stata inviata a Washington con l’obiettivo di discutere direttamente con funzionari politici e militari statunitensi. Secondo rappresentanti del dipartimento di Stato, il dialogo è “franco” ma costruttivo, e il ritorno della Nigeria nella lista dei Paesi di particolare preoccupazione avrebbe già attirato l’attenzione delle autorità di Abuja.

Un segnale della serietà con cui Washington sta trattando il dossier è arrivato anche sul piano politico-militare. Durante la visita della delegazione nigeriana negli Stati Uniti, il consigliere per la sicurezza nazionale di Abuja ha avuto colloqui programmati con il segretario alla Difesa Pete Hegseth – che l’amministrazione Trump ha ribattezzato “Department of War” – e con il Chairman of the Joint Chiefs of Staff, il generale Dan Caine.

A questi incontri si somma la risposta pubblica di Hegseth a un messaggio del presidente Trump, in cui quest’ultimo evocava possibili azioni rapide se la Nigeria non dovesse intervenire con maggiore decisione. Lo “Yes sir” con cui Hegseth ha replicato, aggiungendo che il Dipartimento stava “preparando azioni”, non indica necessariamente un’imminente escalation, ma segnala che il tema è ormai arrivato ai vertici dell’apparato di sicurezza americano e che la Casa Bianca intende mantenere alta la pressione su Abuja.

La postura italiana in un quadro fluido

Mentre Stati Uniti e Nigeria si confrontano su accuse e narrative contrapposte, l’Italia adotta una posizione che cerca di combinare principi e pragmatismo. Roma condanna le violenze e richiama la necessità di proteggere tutte le comunità religiose, ma evita toni ultimativi e non inserisce la questione in una logica di pressione bilaterale. Questa impostazione riflette non solo la tradizionale attenzione italiana al tema della libertà religiosa, ma anche la consapevolezza che la Nigeria rappresenta un attore indispensabile per l’intero equilibrio dell’Africa occidentale.

In un momento in cui il continente è al centro delle agende multilaterali e mentre il G20 africano contribuisce a ridefinire la conversazione globale sul ruolo dell’Africa nel sistema internazionale, Roma mira a mantenere un approccio credibile e dialogante. È una scelta che si distingue da quella americana, ma che potrebbe diventare un elemento utile nel tentativo di tenere aperti i canali con Abuja e di evitare che la crisi venga interpretata attraverso una lente puramente identitaria o polarizzante.

Focus sulla Nigeria. L'Italia ascolta le preoccupazioni Usa

Le violenze contro le comunità cristiane in Nigeria diventano un tema internazionale. Governi, parlamenti e organismi multilaterali intervengono. Palazzo Chigi richiama alla tutela della libertà religiosa mentre l’amministrazione Trump aumenta la pressione diplomatica e politica su Abuja, con possibili sanzioni e coinvolgimento militare

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