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L’altro volto dell’effetto sanitario prodotto dal coronavirus – meno visibile delle terapie intensive intasate e della tristezza dei decessi – potrebbe portarsi dietro un’onda ancora più lunga e riguarda la salute mentale, la sfera psicologica, quello che a livello internazionale viene definito come “mental health”. Concetto ampio che passa da situazioni più classificabili dal punto di vista medico ad altre più sfumate, ma non per questo meno preoccupanti. Il sito del governo americano definisce il mental health, la salute mentale, come  l’insieme del “nostro benessere emotivo, psicologico e sociale”; qualcosa che “colpisce il modo in cui pensiamo, proviamo sentimenti e agiamo” e che “aiuta anche a determinare come gestiamo lo stress, ci relazioniamo con gli altri e facciamo delle scelte”.

“La salute mentale è cruciale in ogni fase della vita, dall’infanzia fino all’età adulta”, ed “è influenzata da un’insieme di fatti che possono riguardare fattori biologici personali, come traumi, abusi ed esperienze di vita, fino al contesto famigliare”, spiega a Formiche.net Elettra Bianchi Dennerlein, autrice di un saggio, “The dusks and dawns out of lockdown“, che tratta gli effetti della pandemia sulla sfera psicologica delle persone. Il libro contiene consigli attivi, anche perché Bianchi Dennerlein è la co-fondatrice e co-Ceo di My Online Therapy, un’app basata a Londra che si occupa di assistenza psicologica a distanza e che, racconta, “ha avuto un grosso incremento di utenti da ogni parte del mondo nei mesi durissimi dei lockdown, quando gli isolamenti hanno lasciato molte persone sole con le loro problematiche”: “È con immensa gratitudine che ogni giorno mettiamo a disposizione le competenze tecniche di decine di nostri psicologici per chi chiede di essere ascoltato”.

Emanuele Rossi, firma di queste colonne, ha curato la prefazione del testo, con un’analisi sulla geopolitica e la psicologia sociale che riportiamo di seguito.

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Il 6 maggio 2020 l’account Twitter della Croce Rossa internazionale ha fissato sul proprio feed un tweet: “Even during conflict. Even during a pandemic” il messaggio. E sotto un’immagine che riportava una scritta ripetuta in stile Bart Simpson sulla lavagna della sigla iniziale di ogni puntata: “Mental health is as important as physical health”. La salute mentale è importante tanto quanto quella fisica. E mai come in questo periodo ce ne stiamo accorgendo.

A inizio maggio la Bloomberg ha diffuso i risultati di alcuni report agghiaccianti. Per esempio, secondo un paper redatto dalla Well Being Thrust e dai ricercatori della American Academy of Family Physicians, negli Stati Uniti nei prossimi dieci anni potrebbero esserci 75mila casi di “morti per la disperazione”, un modo per indicare i suicidi e le overdose. 

La crisi economica, seppure ci sarà una ripresa, si porterà dietro vittime. La disoccupazione che corre come non mai nella storia degli Stati Uniti è un elemento che intacca la tenuta sociale, crea disagi, condizioni di stress che si ripercuoto sulle stabilità interne. L’uso di oppiacei – già piaga sociale, e dunque politica americana – avrà un peso su questa situazione. L’Hydrocodone o i suoi parenti saranno l’abisso in cui piomberà chi, preso dalla disperazione, cercherà rifugio: passaggio già noto in cui il dolore fisico diventa mentale, con tutte le derive connesse. Previsioni non troppo ardite, basate su un’esperienza già vissuta negli States.

La Jama Psychiatric ha fatto uscire in aprile un altro studio preoccupante, “Suicide Mortality and Coronavirus Disease 2019—A Perfect Storm?”. La tempesta perfetta sarebbe riprodotta dal sommarsi dell’incremento dei suicidi, dato mai così alta dal 1941, e dal crearsi di problematiche psicologiche personali connesse alla pandemia. Ma gli Usa, citati in questi due casi, sono solo un interessante – per il valore che il paese ha nel mondo – paradigma.

E non c’è solo l’aspetto economico-lavorativo, certamente importante per chi si approccia una visione basata sulla prosperità individuale. C’è chiaramente la sfera personale che ha risentito pesantemente dei lockdown, dell’isolamento, della separazione. Nell’assenza del contatto fisico e sociale, la mente ha approfondito le faglie personali, scavato ed eroso fino alle profondità più intime.

L’aspetto politico della situazione è conseguenze logica. Il sommarsi degli individui produce le collettività, base che compone uno stato, una popolazione. Le cittadinanze affette in massa da disturbi  mentali e psicologici di vario grado diventano problematiche nella loro gestione. È qui che la situazione sanitaria – perché tale è un la salute mentale – entra prepotentemente nella sfera politica.

È d’altronde quello che abbiamo visto con il virus. Una crisi sanitaria che ha scombussolato gli stati. Le loro agende, i loro progetti, le stabilità delle leadership e il mutuo rapporto con i cittadini. Il contratto sociale che Hobbs, Locke e Rousseau considerano alla base della strutturazione di una società viene rivisto, a tratti rinnovato, rimodulato e perché no stracciato. L’effetto della pandemia è diretto, istantaneo, ma si porta dietro un’onda lunga. 

Il morbo colpisce le strutture dello stato, dall’economia alla proiezione internazionale, ma colpisce ancora di più la base di un paese: la popolazione. E il distress mentale è una di quelle onde lunghe, acuita dal cambio di abitudini che SarsCoV-2 sta imponendo. Disagi dovuti per esempio alla crisi delle relazioni sociali: il nemico invisibile scorre tra la popolazione  e mette persone dello stesso nucleo famigliare in una condizione di sfiducia reciproca. La paura del contagio ha prodotto l’isolamento, ossia la contrazione della socialità. 

È un elemento di tenuta sociale non indifferente. Si ricorderanno le file davanti alle armerie per comprare quelle che gli americani ritenevano generi di prima necessità: fucili e pistole. Un’eccezionale battuta del sito satirico The Onion sfotteva quelle persone che che avevano fatto rifornimento di piombo, scherzando sul se una delle società produttrice di armi avesse per caso progettato una pallottola talmente piccola da uccidere il virus. Ma quelle file sono diventate un simbolo in giro per il mondo di quale deriva psico-sociale avrebbe potuto prendere la situazione. Gli Ar-15 protagonisti delle stragi nei college erano il farmaco contro il virus, un Hydrocodone istintivo, con cui gli americani rivendicavano il diritto al Secondo emendamento.

Chi segue le relazioni internazionali non può sottovalutare certe azioni delle collettività nei singoli paesi. Sono quei comportamenti che – in un momento in cui le leadership si muovono più per cercare il consenso che per seguire un interesse e un bene comune – dettano il passo. E da quel passo dipendono di conseguenza i rapporti tra i paesi. Un paese in cui la prosperità non è solo economica, ma guarda alla salute mentale dei suoi cittadini, è florido, reagisce meglio alle crisi e alle stimolazioni esterne, si proietta con più forza verso lo sviluppo. 

La psicologia collettiva è parte cruciale della geopolitica, tanto quanto la morfologia dell’ambiente in cui un paese è inserito, le sue risorse e i suoi collegamenti, le sue capacità militari o la storiografia e la forza economica. Perché la salute mentale è parte fondamentale per la stabilità di un paese.

La soddisfazione per le condizioni di vita incide sulle capacità dei singoli di immaginare il futuro. E dunque sulla forza di uno stato di cavalcare la storia, di esserne protagonista. Non a caso la Cina – paese in cui s’è prodotta la pandemia interrompendo la rincorsa verso la vetta del mondo – aveva già predisposto studi riguardo alla correlazione tra gli effetti di un’epidemia e l’erosione della salute mentale dei cittadini. L’esperienza della Sars nel 2003 era servita anche a questo. 

Per esempio, il dipartimento di Psichiatria della Chinese University of Hong Kong ha pubblicato nel 2006 uno studio su come il tasso di suicidi nel Porto Profumato fosse aumentato nello stesso anno della Sars – un’epidemia prodotta sempre da un coronavirus, del tutto simile a quella attuale. In quel caso i più colpiti dall’autolesionismo più estremo e disperato erano le persone anziane, le stesse che oggi come allora sono quelle potenzialmente più inclini a subire i danni più grossi della Covid19. In particolare, le donne over-65. È un fattore correlabile con lo sviluppo del virus, ma anche con gli effetti o gli affetti: delle sindromi respiratorie gravi causate dal coronavirus hanno risentito più gli uomini, dei suicidi in quello stesso anno le donne.

Ansietà e depressione sfociano in forme di PTSD, la pandemia produce qualcosa di simile a una fase post-guerra. E come con il caso della propagazione del virus, si innescano disomogeneità che disegnano separazioni pre-esistenti di carattere geopolitico anche interne agli stessi paesi. I rischi aumentano seguendo le linee della diseguaglianza. Gli abitanti di uno stesso paese soffrono le differenze, le sentono, el subiscono, in molti casi non ne reggono il peso. Nel 2016 uno studio del British Journal of Psychiatry ha abbinato dinamiche geopolitiche interne alla salute mentale ponendo come sfondo la recessione, ossia semplificando l’impoverimento della popolazione.

La sofferenza umana è un fattore antropologico, ma nelle società attuali del benessere – le più colpite dalla pandemia – diventa un elemento devastante. E il rischio in questa fase è che la fascia demografica più colpita sia quella dei giovani, che trovavano già difficoltà a costruirsi un futuro a causa del perdurare dell’onda lunga della crisi finanziaria del 2008 – e che ora trovano nella diffusione del virus una sorta di colpo di grazia psico-economico. 

Nessuno stato può permettersi di affrontare una crisi mentale collettiva, soprattutto se dovessero essere colpite il segmento della popolazione che deve produrre ricchezza, pensiero, sviluppo e incrementare la demografia. È per questo che non possiamo sottovalutare la dimensione anche politica e geopolitica di quanto riportato in questo volume. Analisi di valore su un argomento su cui i governi devono provvedere a una pianificazione strategica.

(Foto: Wikipedia)

 

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