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Certe abitudini sono dure a morire. Il National security council (Nsc) americano punta il dito contro la disinformazione di Stato russa sul coronavirus. Lo fa richiamando una delle più grandi campagne di disinformazione della seconda metà del Novecento: il complotto dell’Aids made in Usa, diffuso e promosso dall’Unione Sovietica negli anni ’80.

Un passo indietro. Da settimane l’amministrazione di Donald Trump denuncia un’operazione di disinformazione globale con la regia al Cremlino sulle origini e la natura della pandemia del Covid19. Ora è il New York Times a certificarla, con una lunga inchiesta di William Broad che ripercorre la love story fra Vladimir Putin e la disinformazia nel campo sanitario.

I fatti sono ormai noti. A inizio febbraio i media governativi e filo-governativi russi hanno iniziato a concedere ampio spazio ad alcune teorie complottiste secondo cui il coronavirus sarebbe in realtà un prodotto di laboratorio degli Stati Uniti. Il modus operandi, spiega un articolo della BBC, è consolidato. Formalmente, i tg e i programmi di approfondimento delle emittenti filo-Cremlino prendono le distanze dalle cospirazioni e da chi le propina. In realtà, lanciando i servizi dai toni complottisti senza un servizio di fact-checking né una controparte pronta a smentirli, se ne amplifica la portata.

Così Channel One, uno dei massimi canali tv russi, ha confezionato un’intera rubrica per le teorie complottiste sul Covid-19 nel suo programma serale Vremya. Sullo stesso canale, i primi di febbraio il conduttore Kirill Kleymyonov ha dedicato un focus alla tesi secondo cui il coronavirus sarebbe un’ “arma bio-etnica” degli americani. Tesi falsa, ha precisato, salvo poi aggiungere che “anche gli esperti più prudenti dicono che nulla si può escludere”.

Sul web la disinformazione è corsa più veloce. Una miccia formidabile si è accesa grazie a un sito russo appartenente a “Il Russofilo”, svela il New York Times, un canale di (dis)informazione web che si definisce “un sito news libero (= non in mano all’élite globalista)”. Il proprietario del sito è indicato con il nome “OOOKremlinTrolls”, l’indirizzo porta a un edificio moscovita a fianco al palazzo della Lukoil, gigante del petrolio russo finita nel ciclone dello scandalo Cambridge Analytica.

Il sito russo, scrive Broad sul Nyt, ha rilanciato e aiutato a divenire virale un articolo di un blog complottista americano, Naturalnews.com, con questo titolo: “Innegabile: il coronavirus è stato progettato da scienziati in un laboratorio usando vettori di ingegneria genetica che lasciano dietro di sé un’impronta”. Segue una lunga lista di presunti complotti orditi dagli Stati Uniti negli ultimi decenni, come la creazione in vitro del virus Ebola.

Si tratta, avvisa oggi il National Security Council Usa, di un modus operandi ben noto agli addetti ai lavori. Rilanciare tesic complottiste anti-americane prodotte da siti e blog americani è un ottimo modo per far loro da megafono, senza precludersi la possibilità di prenderne le distanze all’occasione.

Il precedente più conosciuto e di successo risale alla seconda metà degli anni ’80, ricorda il Nsc. All’epoca Putin era appena stato promosso a tenente colonnello del Kgb, l’agenzia dei Servizi segreti per l’estero dell’Urss. Per distogliere l’attenzione dallo sviluppo sotto traccia di un arsenale di armi biologiche in aperta violazione della convenzione siglata con gli Usa nel 1972, l’intelligence del Cremlino lanciò l’operazione “Infektion“: una campagna di disinformazione per far credere che l’Aids fosse stato creato dagli Stati Uniti per la ricerca di armi biologiche.

L’operazione partì il 17 luglio 1983, su un giornale indiano, Il Patriota. Una lettera di un “ben noto scienziato americano”, ovviamente sotto anonimato, intitolata: “L’Aids potrebbe invadere l’India. La misteriosa malattia causata dagli esperimenti americani”.

Il tam tam della disinformazione internazionale andò talmente a segno che, per la seconda metà degli anni ’80, la storia dell’Aids made in Usa aveva fatto breccia nei sistemi mediatici di 80 Paesi, in 25 lingue.

La disinformazione russa aveva mezzi diversi, meno sofisticati, ma usava lo stesso metodo delle campagne di queste settimane: una tesi “estranea”, fatta circolare su media stranieri, e poi amplificata e rilanciata sui media ufficiali.

Sono passati quasi quarant’anni e non molto è cambiato nell’adozione delle “active measures” russe. Una cosa sì: il fattore rischio. Come spiegano al Nyt due esperti internazionali di comunicazione russa, Darren Linvill e Patrick Warren della Clemson University, la nuova disinformazione made in Russia “è più subdola di quella vecchia”. Il nuovo metodo si fonda meno sulla “creazione” e più sulla “cura” della campagna di fake news. I blog e i siti complottisti dal mondo del web portano in tavola le portate principali, alle agenzie di intelligence e ai media russi non serve altro che disporre i piatti.

 

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