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Si susseguono eventi distruttivi ai quali la nostra società, moderna e tecnologica, non riesce ad anteporre previsioni concrete. I terremoti, le inondazioni, la più recente pandemia di coronavirus dimostrano che le condizioni di normalità possono “saltare” da un momento all’altro. Senza proiettare i nostri ragionamenti verso gli scenari catastrofici legati agli effetti del troppo repentino cambiamento climatico, non si possono non considerare i fattori di maggiore rischio: la scarsità dell’acqua, l’innalzamento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai, che si combinano pericolosamente con l’aumento della popolazione.

L’unica risposta reale risiede nella lungimirante programmazione delle disponibilità strutturali dei servizi pubblici. In primis: la sanità, l’istruzione, i trasporti, cercando di sottrarre questi ultimi, quanto più possibile, alla gestione fortemente energivora del traffico privato. Il terremoto del 2016 di Amatrice e l’attuale pandemia, scoppiata in Cina, ma diffusasi in tutto il mondo, non potevano certamente essere previsti, tuttavia i loro effetti sono risultati devastanti a causa dell’impreparazione a fronteggiarli. È evidente che all’emergenza si può rispondere solo se la dotazione degli strumenti di contrasto è ampia e generosa, capace di affrontare anche i casi eccezionali.

Le carenze sanitarie, in Italia, derivano da un cospicuo calo di investimenti pubblici. Questa riduzione ha comportato negli anni un numero sempre più basso di posti letto negli ospedali. Misurato sulla base di mille abitanti, questo valore (3,2), nel nostro paese, è sensibilmente inferiore alla media Ue (5). Tralasciando ulteriori valutazioni sulle forti differenze regionali, alcuni casi, semplici ed evidenti, dimostrano uno spreco di risorse, già peraltro scarse, che risulta inaccettabile, se non addirittura incomprensibile.

Ad esempio a Roma, ma il fenomeno è diffuso anche nel resto del territorio nazionale, due strutture ospedaliere sono dismesse da anni e il loro riuso non è in attuazione, ma neppure in programmazione. L’Ospedale San Giacomo in Via del Corso e il Forlanini sono stati chiusi in assenza di un piano definito di riuso che, peraltro, avrebbe dovuto tenere conto di alcuni vincoli reali, legati sia al rispetto della destinazione d’uso che alla conservazione di un impianto architettonico dalla qualità molto pronunciata, tanto nella composizione degli spazi quanto nell’uso dei materiali.

L’esigenza di trarre profitto dalla loro dismissione, liberandosi anche da costi di gestione, certamente elevati, si scontra pertanto con impedimenti concreti che avrebbero dovuto scoraggiare obiettivi difficilmente perseguibili, per non arrivare al collasso degli impianti, molto pronunciato al Forlanini. Di fatto il mancato utilizzo dei due ospedali ha ridotto il numero dei posti letto, aggravando, e non di poco, la condizione sanitaria di Roma. Nella situazione attuale, in cui si cerca di recuperare ambienti di fortuna per allestire degenze ospedaliere, ricorrendo anche alle disponibilità alberghiere, risulta paradossale e colpevole che strutture specifiche siano state trascurate e lasciate a lungo senza manutenzione. L’esperienza di questi giorni rende chiaro in tutta Italia il valore del patrimonio esistente, soprattutto se nato per sostenere condizioni di assistenza sanitaria.

L’urbanistica moderna tende a razionalizzare l’assetto della città, spostando i grandi servizi fuori dal centro storico, al fine di rendere meno invasivo l’accesso delle auto e non pesare, di conseguenza, su un tessuto edilizio per lo più minuto. Tuttavia, in assenza di una sostituzione contestuale e viste le possibili emergenze, risulta sempre più necessario conservare e adeguare l’esistente. Peraltro le strutture edilizie di qualità, dotate come il Forlanini di ampi spazi all’aperto, possono benissimo corrispondere alle esigenze di un presidio più leggero.

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