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Un’industria della difesa stanca, inefficiente e in piena crisi strutturale. Nonostante la narrazione del Cremlino, sanzioni, guerra e stagnazione tecnologica stiano erodendo in profondità l’apparato militare-industriale moscovita, secondo i dati riportati nel report di Chatham House firmato da Mathieu Boulegue.

Nonostante l’aumento senza precedenti delle spese per la difesa (che nel 2025 dovrebbero raggiungere il 6,3% del Pil) e la riconversione dell’economia verso un modello bellico, il sistema produttivo russo soffre di gravi limiti interni come vincoli finanziari, mancanza di manodopera specializzata, dipendenza da componentistica estera, incapacità cronica di innovare, corruzione dilagante, e gestione inefficiente.

Il report parte dal quadro macro: l’industria militare russa (Oboronno-Promyshlennyy Kompleks, altresì detta Opk) è stata colpita in modo durissimo da oltre un decennio di sanzioni internazionali, aggravate dall’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022. Se da un lato Mosca è riuscita a incrementare la produzione in alcune aree chiave, dall’altro ha dovuto riorientare buona parte della sua base industriale verso la riparazione e l’upgrade di vecchi sistemi sovietici, molti dei quali letteralmente riesumati dai magazzini. Una strategia che può funzionare nel breve termine, ma che rivela una profonda incapacità di generare armamenti nuovi, avanzati e competitivi.

Il personale è un’altra criticità strutturale. Non manca la manodopera in senso numerico, ma scarseggiano in modo allarmante le figure qualificate. Nei centri di progettazione e ricerca, l’età media supera i settant’anni, mentre i giovani fuggono. Il governo cerca di correre ai ripari con programmi universitari e reclutamento forzato, ma intanto la produttività crolla e gli stabilimenti (spesso sotto-organico) sono costretti a turni massacranti e straordinari non pagati.

A tutto questo si somma il peso di una struttura industriale centralizzata in modo estremo. Il colosso statale Rostec controlla oltre il 75% del comparto militare, accorpando aziende in perdita in un sistema che ha ridotto la concorrenza, rallentato le decisioni e annichilito la spinta all’innovazione. La burocrazia è opaca, e la gestione accentrata e l’influenza del Cremlino si traducono in una sorta di micromanagement in cui ogni nodo produttivo risponde più alla logica politica che a quella industriale.

C’è anche un fattore “tecnologico” da considerare. La cosiddetta “modernizzazione” dei sistemi russi si rivela spesso una semplice estensione della vita operativa di mezzi vecchi, a cui vengono aggiunti upgrade cosmetici o componenti low-cost. La pressione del campo di battaglia spinge le forze armate a preferire ciò che è già testato, semplice e riparabile. Il risultato è che l’innovazione militare viene scoraggiata. I nuovi progetti restano sulla carta, mentre sul terreno continuano a operare blindati, missili e sensori che affondano le proprie radici nel know-how sovietico.

Quello che emerge dall’analisi di Boulegue è un modello in apparente tenuta ma in lenta implosione. La Russia riesce ancora a sostenere la guerra, ma lo fa svuotando le proprie scorte strategiche, prosciugando le risorse produttive e sfruttando un sistema che lavora al limite. Il rischio è che questa fragilità diventi strutturale e che Mosca si trovi, nei prossimi anni, incapace di tenere il passo con le innovazioni occidentali e cinesi. Una situazione che i policymakers occidentali devono saper gestire.

Il declino lento della macchina da guerra russa nella fotografia del Chatam House

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