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Anche il carbone tradisce la Russia. Non bastavano le entrate da idrocarburi ridotte al lumicino, la crisi sempre più conclamata del sistema bancario. Adesso a inguaiare Mosca ci si mette anche il carbone. Attenzione, i segnali c’erano già da tempo, come raccontato da questo giornale mesi fa, solo che adesso ci sono i numeri. Drammatici. È il volto oscuro di un’economia costruita sulla sulla guerra, sulle armi, figlia di una politica che ha smarrito da tempo la strada della crescita e del benessere. Il risultato ha un che di surreale. Al cospetto di un Pil che, dati della Banca mondiale, nel 2025 dovrebbe attestarsi all’1,4%, tutto intorno a questo dato del tutto riconducibile alla sola produzione bellica, sembra andare in pezzi.

Tanto che l’industria carbonifera russa è in difficoltà. Anzi, è prossima al collasso. L’aumento dei costi, i prezzi bassi e le sanzioni occidentali stanno facendo precipitare il settore nella peggiore crisi degli ultimi 30 anni. Secondo i dati dell’agenzia di statistica statale russa, il carbone russo ha perso 225 miliardi di rubli (2,8 miliardi di dollari) nei primi sette mesi del 2025, il doppio delle perdite totali del 2024. Questo è il numero da cerchiare con il rosso: in sette mesi l’industria del carbone ha perso il doppio dell’intero 2024. Una discesa repentina, che dà la cifra della crisi, specialmente se comparata ai 375 miliardi di profitti registrati nel 2023, quando la guerra infuriava da un anno. “La guerra è un male per la maggior parte delle aziende russe, se non per tutte. Ma il settore del carbone è davvero in una situazione di merda”, ha rivelato un grosso imprenditore russo del settore, rimasto senza nome.

Il carbone in Russia impiega direttamente oltre 140.000 persone e rimane fondamentale in diverse regioni per l’occupazione e le entrate locali. “L’industria del carbone sta attraversando la sua crisi più acuta dagli anni ’90”, ha dichiarato all’inizio di quest’anno all’agenzia di stampa statale Interfax Vladimir Korotin, amministratore delegato di Russian Coal, una delle più grandi aziende carbonifere del Paese, avvertendo che migliaia di posti di lavoro e di entrate fiscali sono a rischio. A settembre, 23 aziende carbonifere, circa il 13% del totale nazionale, avevano chiuso i battenti, mentre altre 53 rischiavano la chiusura.

Domanda: se l’industria, carbone o petrolifera, non tira, come pensano al Cremlino di finanziare la guerra contro l’Ucraina. La risposta è una e una soltanto: deficit. Un impegno che richiede sempre più risorse senza garantire in alcun modo un ritorno o un ricircolo del denaro, il tutto mentre le sanzioni occidentali ostacolano le importazioni e la produzione patisce sotto gli attacchi mirati di Kiev. Le incursioni mirate ucraine agli impianti di raffinazione hanno dato un duro colpo al settore energetico, portando la benzina a prezzi record e costringendo a imporre limiti stringenti, per non parlare delle aree rimaste completamente a secco di carburante come le isole Kurili.

L’aggressione militare contro Kyiv continua mettere a dura prova l’economia russa, con un deficit di bilancio che si prevede raggiungerà i 5,73 trilioni di rubli (68,8 miliardi di dollari) nel 2025, in netto aumento rispetto alla precedente stima di 1,7 trilioni di rubli (20,4 miliardi di dollari). Mentre il conflitto si protrae, la spesa militare e per la sicurezza continua a prevalere sulle spese statali, con il 38% del bilancio federale del 2026 destinato alla difesa nazionale e alla sicurezza nazionale. La Russia è davvero in crisi, oggi più che mai, sta solo scegliendo di non sacrificare gli interessi bellici per risollevare la nazione.

Dopo il petrolio, il carbone. Il lato oscuro della crisi russa

Nei primi sette mesi dell’anno l’industria carbonifera russa ha accumulato perdite per 225 miliardi di rubli, due volte quelle complessive registrate nel corso dell’intero 2024. L’ennesima prova di un modello che non regge più alla prova dei numeri

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