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Dopo mesi di trattative ad alta tensione, Stati Uniti e Giappone hanno firmato un accordo commerciale che segna una svolta nei rapporti bilaterali, messi a dura prova dalla politica tariffaria dell’amministrazione Trump. Coincidenza: l’intesa viene resa nota proprio mentre la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è a Tokyo, dove ha annunciato una nuova “Alleanza per la competitività”. Sempre nello stesso giorno, il presidente Donald Trump ha annunciato un accordo commerciale con le Filippine che prevede una tariffa del 19% sui beni in entrata da Manila, a fronte di dazi zero per quelli statunitensi.

L’intesa è stata formalizzata dopo l’incontro alla Casa Bianca con il presidente Ferdinand Marcos Jr., descritto da Trump come “una visita bellissima” e coronata dalla firma del deal. “Le Filippine vanno verso un mercato aperto con gli Stati Uniti”, ha dichiarato il presidente, elogiando Marcos come “un negoziatore duro ma molto valido”. Quello che non può essere detto apertamente è che Manila ha negoziato l’intesa per necessità quasi vitale: le Filippine sono costantemente sotto aggressione da parte della Cina, che ormai ha sdoganato tecniche militari, andando oltre la zona grigia, per far valere le proprie ambizioni egemoniche nelle acque contese del Mar delle Filippine Occidentale (Mare dell’Est).

Quanto accaduto tra Trump e Marcos è paradigmatico, perché anche Giappone e Ue si trovano in condizioni simili. Per il presidente statunitense tutto passa da deal su base economica e America First, anche le più strategiche delle relazioni. L’Europa ha ormai chiara tale consapevolezza, anche perché il tempo sta per scadere: dal 1º agosto scatteranno le tariffe se non ci sarà un accordo commerciale, e senza un’intesa di potrebbe aprire una frattura transatlantica — di cui Bruxelles rischia di pagare il conto, sebbene la pressione per modificare le relazioni sia una scelta di Washington. Intesa da cui chiaramente gli europei vorrebbero trarre vantaggi e tutele, visto che a differenza di Tokyo possono contare su una maggiore stabilità interna.

Il Giappone è infatti uscito diverso (e in parte diviso) dalle elezioni di domenica scorsa, in cui — per la prima volta in settant’anni — il Partito liberal-democratico del premier Shigeru Ishiba ha perso la maggioranza parlamentare. L’accordo con gli Usa fa parte della ricerca di stabilità e dunque sopravvivenza del primo ministro — che però potrebbe anche intende dimettersi a fine agosto, proprio con il risultato dell’intesa con Trump come eredità.

Il patto prevede la riduzione dei dazi statunitensi sulle auto giapponesi dal 25% al 15%, alleggerendo la pressione su un settore chiave dell’export nipponico. In cambio, Tokyo si impegna a finanziare fino a 550 miliardi di dollari di investimenti negli Stati Uniti per rafforzare le catene di approvvigionamento in settori strategici, oltre ad aumentare le importazioni di prodotti agricoli americani, incluso il riso, seppure entro i limiti fissati dal Wto. La mossa disinnesca un potenziale scontro commerciale e garantisce vantaggi strategici a entrambi i Paesi, in un momento di instabilità politica per Tokyo.

Restano fuori dalla trattativa le questioni valutarie, ma il Giappone conserva un forte potere negoziale come principale detentore di debito Usa. Secondo Oxford Economics, il risultato elettorale rafforza l’ipotesi che la Banca del Giappone non alzerà i tassi finché non si attenuerà lo shock tariffario statunitense previsto almeno fino al 2026, in un contesto in cui sia maggioranza sia opposizione temono l’impatto economico di dazi elevati.

Come il Giappone, anche l’Europa è esposta agli shock esterni generati dalla politica commerciale americana e dalla competizione globale nei settori strategici — temi che saranno al centro anche del summit Ue-Cina cui parteciperà domani von der Leyen a Pechino. Entrambe le economie sono fortemente dipendenti dall’export, ma reagiscono in modo diverso: Tokyo ha negoziato direttamente con Washington, mentre Bruxelles appare più lenta e divisa. Sul piano monetario, la BoJ resta accomodante, mentre la Bce ha avviato una stretta per contrastare l’inflazione. Anche la leva fiscale è più ampia in Giappone, dove il debito è interno e sotto controllo. L’Europa invece resta vincolata da regole comuni e da tensioni tra Nord e Sud, che ne limitano la capacità di risposta.

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