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Molti a Roma ricordano ancora che quando la famiglia patrizia dei Barberini avrebbe utilizzato per la costruzione del proprio palazzo materiali presi dal Colosseo la celebre voce del popolo romano, Pasquino, scrisse lì dove ancora oggi c’è la sua statua “quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini”, quel che non ha fatto i barbari lo hanno fatto i Barberini. Questa frase oggi dovrebbe essere nel cuore di tutti i libanesi, in particolari i beirutini. La loro città ha una storia che si iscrive nelle prime pagine della storia della modernità, e ha reso soprattutto nell’Ottocento la storia ottomana una storia anche araba, europea, moderna, mediterranea. Questa storia è ricchissima e soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento ha offerto testimonianza di come tutti questi incontri fossero possibili.

Il Novecento è proseguito analogamente e ha fatto, soprattutto nella sua prima tragica metà, di questa città uno degli asili per gli esuli di tanti dittature. Beirut, città araba, è stata infatti anche città, capitale del libero pensiero. Uno dei suoi simboli erano, un po’ sul modello francese, i caffè delle vetrate. All’esterno un patio reso ombroso da un tetto ampio, all’interno un ampio salone: in mezzo ampie vetrate in stile liberty a delimitare senza chiuderlo l’ambiente interno, dedicato a musica, danze, giochi di carte, anche cartomanzia, backgammon, e ovviamente discussioni politiche. Sopravvissuto alla guerra, l’unico caffè delle vetrate è morto pochi anni fa, come molto altro, per mano della dubaizzazione, un meccanismo di costruzione nella una città giardino di giganteschi shopping center e grattacieli impossibili anche da farceli entrare in quelle viuzze strette. La dubaizzazzione ha nascosto la prima rapina ai danni di Beirut; renderla una città sterminata, con palazzi costruiti solo per riciclaggio di enormi fortune. Poi magari qualcuno ne avrebbe usato un appartamento d’estate, quando il caldo nei Paesi ricchi, i paesi del Golfo, diventa insopportabile. Solo, tra centinaia di appartamenti vuoti, piscine deserte.

Quando il Libano, depositario di fortune inestimabili, così inestimabili da essere sopravvissute a 15 anni di guerra civile, ha dichiarato default – pochi mesi fa – la saggezza dei padri è scomparsa nella spudoratezza dei figli. I padri avevano fatto grande il Libano resistendo alla nazionalizzazione di tutto, dalle banche al pensiero, figlio debosciato dell’epoca araba post indipendenza. Così i capitali di mezzo mondo erano fuggiti a Beirut, facendola grande. E libera. Il vaso di coccio, capitale del piccolo Libano, si dimostrava enormemente più “propulsivo” di tanti vasi di ferro. La guerra ha spezzato ma non distrutto questo cammino, tanto che Beirut è rimasta anche la città dell’istruzione, elementare, media, superiore, universitaria, soprattutto cristiana. Anche se ci sono stati nobili tentativi di istruzione di qualità islamica, Beirut è stata la capitale delle scuole cristiane, aperte a tutti. Tutto il mondo arabo è andato per decenni a studiare a Beirut e le scuole cattoliche, ma non solo cattoliche, ne sono il simbolo più noto. Basti dire dell’American University of Beirut, in origine Università dei Protestanti. È un tempio del sapere arabo, una città nella città… Il quartiere di Hamra, Capo Beirut, si sviluppa intorno a questa Università, con librerie, stamperie, cartolerie… e ovviamente caffè. Un tempo anche cinema e teatri, belli e numerosissimi.

Ora l’American University of Beirut starebbe per chiudere. Come sta chiudendo l’80% delle scuole cattoliche. Lo hanno scritto al presidente Aoun, cristiano maronita. Senza avere risposta. Quando hanno chiuso i simboli della vita culturale e vacanziera di Beirut, gli hotel Bristol, nel versante musulmano, e Alexander, in quello cristiano, pochi mesi fa, pochi ci hanno prestato attenzione fuori dal Libano. Un’epoca di visite e incontri abbassava i battenti nel mondo arabo sempre più chiuso, intriso di crisi che si accavallano come le onde del Mediterraneo. Ma non vedere, non dire che chiudono le scuole, le università è impossibile. Cosa è successo? E cosa annunciano queste dolorosissime chiusure?

Forse solo un esempio può farlo capire e riportarci ai Barberini di lì. Quando l’ultima centrale elettrica del Libano è stata distrutta dalla furia bellica innescata da Hezbollah nell’ultimo conflitto con Israele il governo libanese ha pensato: invece di rifarla che poi Israele magari la distrugge di nuovo prendiamo la corrente dalle mega-navi che esistono oggi. E risolviamo il problema.

Tantissime voci, anche poco note per la loro saggezza, come quella dell’emiro del Kuwait, hanno consigliato l’altra strada. Vi diamo noi un prestito a tasso ultra agevolato, ma rifate la centrale. No. E così il Libano oggi affoga nei suoi debiti inauditi, in cui la bolletta elettrica pesa per 40 miliardi di dollari. I libanesi sono poco più di tre, quattro milioni. E affogano in 40 miliardi di debito per l’energia… La scelta è stata vigorosamente difesa da tutte le grande famiglie libanesi, quelle che occupano da decenni il grande palco della politica. Perché? Forse perché a Beirut non c’è il Colosseo e i Barberini lo sanno. Quel “materiale” va sottratto altrimenti per costruire i loro palazzi patrizi.

I Barberini libanesi si sono mangiati il Libano e oggi si dice che in cassa ci siano soldi soltanto per pochi altri mesi. Poi basta corrente, basta medicine. Si potrà evitare di mettere al buio e senza trasporto un popolo che aveva il sistema bancario più florido del mondo? Per dire di sì bisogna immaginare che Hezbollah, che oggi governa il Paese insieme agli uomini del presidente Aoun, uno dei capi del disastro della guerra civile e sedotto da Khamenei, riesca a trovare un linguaggio comune con i tecnocrati del Fondo Monetario Internazionale. Possibile? Non penso e non la pensa così neanche l’economia che infatti sta portando i prezzi alle stelle, la lira libanese a non valere più nulla, il paese ad avvertire i morsi della fame.

Forse i mesi diverranno un pochino di più, non lo so, ma penso che i più oscurantisti tra gli estremisti del salafismo in armi se avessero pensato di poter far chiudere, un giorno, tutto il sistema educativo cristiano di Beirut avrebbero detto a se stessi “Beh no… questo è troppo”. Dunque “quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini”, di nuovo. Questa volta nella città giardino del Mediterraneo, nella città dove traducendo par la prima volta la Bibbia in arabo, due missionari crearono l’arabo moderno, semplificato rispetto a quello coranico, l’arabo usato da tutte le televisioni del mondo arabo; quello che sta perdendo nel silenzio del mondo la luce della sua ultima grande città di mare, mediterranea come lo fu Alessandria, prima di spegnersi anni fa. Ma non è questo il tempo per sperare che qualcuno si chieda: “In che Mediterraneo ci ritroveremo se dopo Smirne, Salonicco, Alessandria, chiude anche Beirut?”.

(Foto: Francisco Anzola)

Se anche Beirut chiude. L'agonia della città giardino del Mediterraneo

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