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La presentazione in società quando si riceve un incarico o si acquisisce un nuovo ruolo è importante per tutti. Lo sarà stata ancor di più per padre Juan Antonio Guerrero che nella tempestosa situazione del riassetto, riordino e riforma delle finanze vaticane diviene, senza avere neanche il titolo vescovile, Prefetto per l’economia della Santa Sede. Che sia un gesuita, che non abbia neanche status vescovile per un incarico cardinalizio, lo fa apparire chiaramente come una scelta operata proprio da Francesco. E lui ha scelto un modo molto interessante per presentarsi in società: ha pubblicato su La Civiltà Cattolica un articolo dal titolo programmatico: “Vita urbana e cittadinanza”. Per questo merita di essere letto con attenzione, perché indica l’altro volto della “teologia della cittadinanza” che Francesco va a mio avviso definendo. Ricordato che molti parlano di diffusi malesseri nella vita urbana contemporanea nel nostro Occidente, lui si sofferma su tre aspetti: lo spazio pubblico, il lavoro e la famiglia. È importante notare subito che il suo discorso sulla città ricorda il pensiero di Marc Augè, le cui idee traspaiono spesso nei discorsi sulla città dello stesso Bergoglio ancora arcivescovo di Buenos Aires.

Lo spazio pubblico completa quello della casa e del lavoro come nostro spazio di vita ed è fatto sempre di più da i centri commerciali, la strada, l’autobus, la metropolitana, le stazioni ferroviarie, i terminal e gli aeroporti. “La caratteristica che accomuna questi luoghi è di essere spazi non antropologici, «nonluoghi»: luoghi di «anonimato», senza relazioni umane e senza storia condivisa. Non ospitano relazioni o scopi comuni, e ciascuno vi cammina assorto nei propri pensieri, solo con un’altra immagine di se stesso. Sono spazi di transito, in cui la gran parte delle attività di coloro che si spostano al loro interno «consiste nell’occultare o a malapena accennare chi sono, da dove vengono e dove vanno, a che cosa si dedicano, quali sono la loro occupazione, le loro origini o i loro obiettivi […]. La vita urbana si può quindi paragonare a un grande ballo in maschera» in cui ciò che realmente si è resta nascosto. Nei «nonluoghi» nessuno ha una propria identità: si è viaggiatori o consumatori, si possono vedere persone esotiche, e questo dà la sensazione di varietà culturale, ma tutti fanno la stessa cosa: pagare alla cassa, mostrare il passaporto, timbrare il biglietto e via dicendo. Ci si aspetta che ogni utente osservi le regole e tenga un comportamento appropriato e prevedibile.”

Quindi ci sentiamo liberi perché sostanzialmente invisibili. Da “Le città invisibili” di Italo Calvino eccoci agli uomini invisibili. Possiamo esportare questo modello nella nostra vita sociale? Nelle scuole, nelle università e altrove? È così che siamo liberi? “Se questa si esercita partecipando alla costruzione del mondo comune, spazi del genere non aiuteranno a formare le necessarie abitudini del cuore.” Ne emerge un individuo frammentato, cioè disconnesso. I “nonluoghi” dell’oggi, così prevalenti, frammentano gli individui e le loro relazioni. “I «nonluoghi» comunicano con l’utente tramite cartelli o altoparlanti. Gli utenti, dal canto loro, comunicano con il grande spazio tramite la loro condotta individuale: comprano o non comprano, reclamano, si lamentano con la cassiera e così via. È come dire qualcosa a bassa voce in mezzo a un coro assordante di urla; i comportamenti individuali si disperdono nella legge statistica dei grandi numeri, diventando in pratica irrilevanti: pensiamo alle proteste per i ritardi degli aerei, i bagagli smarriti, i disservizi negli ipermercati e via dicendo. Se l’ambito pubblico in cui si esercita la cittadinanza fosse come quello appena descritto e il tipo di organizzazione e di relazioni dei «nonluoghi» venisse esteso a tutta la vita cittadina, ci troveremmo di fronte alla morte della cittadinanza”.

L’autore ipotizza così un passaggio al dispotismo morbido: in assenza di storia condivisa, di discussione, di reciproca conoscenza, dove il mio problema con l’illuminazione pubblica diviene solo mio come quello della valigia smarrita, saremmo davvero al dispotismo morbido: dispotismo, perché l’interesse pubblico sarebbe subordinato a interessi privati, e morbido “perché, invece di puntellare l’organizzazione con il terrore, lo fa con la seduzione”.

Venendo al lavoro, il nuovo prefetto dell’economia constata che oramai si considera lavoro solo quello remunerato. “Ma anche il mantenimento della «coesione sociale», sotto qualsiasi profilo la si consideri, come pure i vincoli familiari, quelli nel quartiere o nella comunità, richiedono tempo, lavoro e dedizione”.

Qui il riferimento è ovvio ed esplicitato: l’emancipazione femminile ha creato le famiglie con due stipendi, un dato di fatto definito irreversibile, ma che va considerato, richiedendo una nuova distribuzione delle funzioni genitoriali. Altro cambiamento decisivo è quello della produzione: il consumatore, si dice, può intervenire sulle scelte del produttore. Ma la volubilità produttiva ha conseguenze anche sul consumatore, che in linea di massima nel resto della sua vita è anche un lavoratore: questa conseguenza si chiama “fine del lungo termine”. Come la produzione così il lavoro non è più a lungo termine: “Nell’impresa flessibile, che è un arcipelago di attività correlate, il lavoro viene organizzato in squadre che richiedono molta fatica, malleabilità e personalità camaleontiche. Alcuni docenti delle scuole di business insegnano che, in un contesto in cui tutto dura poco, la lealtà istituzionale è una trappola.” Eccoci al punto: fiducia, lealtà e impegno reciproco sono valori caduti in disuso. Può la stessa famiglia cedere alla logica del “breve termine”?

La famiglia infatti, nota padre Guerrero, più che valori trasmette affetto. Ecco le relazioni tra genitori e figli quasi come fossero amici invece che madri o padri e figli o figlie. Ma dove condurrà la separazione tra disciplina e affetto? “La scissione fra disciplina e affetto si risolve in un sostegno per la morale del «sentirsi bene», che fa dei propri stati d’animo soggettivi l’obiettivo principale della felicità, e appanna qualsiasi preoccupazione autentica per il mondo comune.” Di grande fascino e suggestione è poi la constatazione che fa padre Guerrero: avete notato che in tutte le famiglie è entrato a pieno titolo un nuovo membro, la televisione?” (E oggi forse si potrebbe dire anche il telefonino come vettore).

È così che padre Guerrero giunge alla sua conclusione: parte dalla banalità del male di Hannah Arendt: non serve essere malvagi per compiere crimini orrendi, basta non pensare, “nascondendosi dietro ciò che «si» fa, ciò che «si» impone, ciò che «si» porta.”

Dunque serve un’ascesi democratica, bisogna scoprire che l’individualismo facile di oggi esercita su di noi un fascino in tutto simile al fascino che esercitava il denaro sulla classe media. Dobbiamo liberarci da questa ansia di ordine che può essere ansia di morte, non solo di vita. “Gli individui frammentati, privi del riferimento oggettivo di un mondo comune condiviso con altri, sono facili da comprare e da manipolare, con l’aiuto della televisione e di altri mezzi di comunicazione. Basta farli sentire bene soggettivamente, offrire loro sensazioni di libertà, l’illusione di scegliere tra un gran numero di alternative, la possibilità di «essere in onda», adeguandosi agli indici dell’opinione pubblica e partecipando agli spettacoli di massa. Non potremo esercitare la libertà se veniamo comprati e colonizzati. Non possiamo continuare a nutrirci di quello che ci uccide.” Sì, il punto forte di questo discorso è che per tornare a essere cittadini occorre tornare a esercitare la libertà, a “collegarci con altri per propositi comuni, in condizioni di uguaglianza e di pluralità.”

Come presentazione in società del nuovo prefetto dell’economia è un fatto rilevante, forse più rilevante di quello che ci saremmo aspettati.

Libertà e cittadinanza in Occidente. Cosa pensa il nuovo prefetto dell’economia della Santa Sede

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