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Il signore della guerra dell’Est libico, Khalifa Haftar, prova un nuovo all-in, e con una dichiarazione televisiva annuncia di essersi autoproclamato alla guida dell’intero Paese. Una mossa disperata, che arriva in uno dei momenti più critici per la campagna con cui da oltre un anno sta cercando senza successo di conquistare Tripoli, rovesciare il Governo di accordo nazionale nazionale onusiano (Gna), e diventare con forza il nuovo rais.

Nelle scorse settimane infatti, le truppe haftariane hanno riportato una serie di sconfitte che hanno prodotto una contrazione territoriale importante. Il capo miliziano della Cirenaica ha perso il controllo di tutta la costa occidentale attorno a Tripoli (fino alla Tunisia) e di un punto nodale per l’offensiva, Tarouhna.

Arrivata nella serata di lunedì 27 aprile, la dichiarazione con cui Haftar dice di “aver accettato il mandato popolare di occuparsi delle questioni nel paese”, dimostra come sia interessato solo alla conquista militare e non all’opzione della soluzione politica — a cui è stato più volte chiamato dalla Comunità internazionale. Tutt’altro che un interlocutore, l’autoproclamata “guida del paese” s’è mosso disprezzando una doppia serie di richieste avanzate recentemente dall’Onu, dall’Unione europea e dagli Stati Uniti. Prima c’era stata l’istanza per una tregua umanitaria che avrebbe dovuto aver io fine di evitare che i combattimenti facilitassero la diffusione del coronavirus. Poi nei giorni scorsi la richiesta di fermare le armi almeno durante il mese sacro del Ramadan.

Come spesso accaduto in passato, Haftar non accetta questo genere di pressioni internazionali. Val la pena ricordare che sulla Libia dovrebbe essere attiva una tregua politica decisa attraverso la conferenza internazionale che si è tenuta a Berlino a inizio anno. Riunione fallimentare, sebbene pubblicizzata dalle cancellerie occidentali come successo diplomatico. La tregua è stata continuamente violata da Haftar, che pure da quella riunione era uscito rafforzato, perché la Comunità internazionale non lo inquadra nitidamente come aggressore. Haftar negli ultimi quattro mesi ha intensificato gli attacchi di artiglieria, che hanno colpito anche zone residenziali di Tripoli; ha bloccato gli impianti che si occupano dell’export petrolifero; e più recentemente la chiusura del principale degli acquedotti che rifornisce la capitale. Le forze del Gna da parte loro non sono restate ferme, e anche grazie all’assistenza militare ricevuta dalla Turchia, ogni volta che hanno avuto l’occasione hanno spinto la controffensiva fino al rush visto in questi giorni.

L’ultima mossa di Haftar — che, a 76 anni, anche per ragioni anagrafiche non ha più niente da perdere — sembra simile a un tutto per tutto. Il capo miliziano teme innanzitutto che qualcuno possa da Est rubargli la scena, approfittando del clima (la potenziale diffusione dell’epidemia) e del contesto (i libici sono stanchi delle guerre). Per esempio Agila Saleh — presidente dell’ultimo parlamento eletto e politico molto forte in Cirenaica grazie anche ai buoni rapporti con l‘Egitto — che nei giorni scorsi sembrava intenzionato a lanciare un’iniziativa di stabilizzazione insieme alla Camera dei rappresentanti.

E poi Haftar con la sua mossa fa pressione sugli sponsor esterni. Cairo e Abu Dhabi (ma anche la Russia e in modo molto più sfumato la Francia) hanno da sempre sostenuto anche militarmente le intenzioni del signore della guerra. Adesso, in difficoltà, Haftar cerca contemporaneamente di inviare un messaggio di forza e di chiedere ulteriore sostegno. Per quanto noto a Formiche.net, la decisione di intestarsi la guida del paese tout court sarebbe stata condivisa con egiziani ed emiratini, ma le due cancellerie non ne sarebbero state troppo soddisfatte — visto che viene vista come un modo per impelagarle ulteriormente nel conflitto.

Haftar con la dichiarazione ha dunque preso spazio con alleati locali ed esterni per continuare la sua mozione su Tripoli. Dice di aver accettato “la volontà del popolo libico di affidargli la gestione degli affari del paese, nonostante il peso delle responsabilità e la molteplicità degli obblighi e la dimensione delle responsabilità che sono sulle spalle dell’esercito”. Spiega che il comando dell’esercito “sarà a disposizione del popolo e lavorerà al meglio delle sue capacità per alleviare la sofferenza del popolo”. Assicura di “aver risposto alla vostra chiamata annunciando la fine dell’accordo politico che ha distrutto il paese e l’affidamento del mandato a coloro che ritenete degni” — parlava del Libyan political agreement, accordo siglato nel 2015 dall’Onu che ha portato alla formazione del Gna, il governo libico internazionalmente riconosciuto.

Chiaramente la richiesta popolare e tutto il resto sono espedienti che servono a giustificare la narrazione propagandistica che vorrebbe il capo miliziano nel suo ruolo per volontà popolare. Elemento che Haftar usa d’altra parte per spingere il suo messaggio populista.

Da Mosca, una ”fonte” del ministero degli Esteri critica il tentato scacco matto di Haftar: lo giudica “sorprendente” parlando con il media del Cremlino Sputnik; una violazione all’intesa di Berlino e alle risoluzioni Onu. Una posizione difensiva, Mosca non ha interesse a farsi coinvolgere troppo; ma anche una reazione che conferma la dicotomia tra apparati russi, dove gli Esteri tengono una linea più dialogante invitando a “soluzioni politiche”, mentre la Difesa ha organizzato il piano di assistenza ad Haftar attraverso l’invio di contractor.

Anche gli Stati Uniti hanno accolto “con rammarico” la mossa haftariana, ma hanno confermato di non voler essere coinvolti: con una nota diplomatica da Tunisi, sede della ambasciata libica, sottolineano infatti che nonostante tutto “l’ambasciata accoglie con favore qualsiasi opportunità di coinvolgere il comandante dell’Lna (la milizia di Haftar, ndr) e tutte le parti in un dialogo serio su come portare avanti il paese”.

 

Libia, perché Haftar prova il tutto per tutto

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