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Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite voterà presto su una risoluzione a sostegno di un cessate il fuoco in Libia, in quello che sarebbe il primo testo vincolante adottato dall’aprile dello scorso anno.

Le discussioni a Ginevra si sono concluse sabato scorso per ora senza alcun accordo definitivo su come implementare l’esile tregua decisa nella conferenza di Berlino di un mese fa. Violata anche questa mattina dai colpi dell’artiglieria haftariana caduti su Nouflin e Souq al-Jumaa, due aree abitate di Tripoli che finora erano sfuggite ai combattimenti.

È possibile, come sostiene l’analista Jalel Harchaoui, che questi colpi siano un effetto di ciò che abbiamo davanti da settimane: l’intenso arrivo di rinforzi dall’esterno. In particolare, la Turchia avrebbe mandato a Tripoli e Misurata una serie di apparecchiature anti-aeree che rendono più complicata la vita ai droni emiratini che bombardano per il lato haftariano. Per questo gli assedianti starebbero usando di più l’artiglieria, che però è molto meno precisa.

Questo è il clima, tutt’altro che una tregua strutturata. Per parlarne il vicepremier del Governo di accordo nazionale libico (Gna), Ahmed Maiteeg, è arrivato sabato a Washington. Per lui era programmata una visita di quattro giorni in cui ha discusso proprio degli effetti dell’uso della forza militare sui cittadini da parte del capo miliziano assediante, Khalifa Haftar. Maiteeg è l’uomo che più di chiunque altro cura le relazioni internazionali libiche con le realtà occidentali: è spesso in Italia (a metà gennaio era a Roma in forma discreta) così come negli Stati Uniti e in altre capitali europee.

Cuore dei meeting il Dipartimento di Stato, che da sempre è stato l’apparato Usa più allineato con Tripoli. Si ricorderà che il 7 aprile dello scorso anno, dopo appena tre giorni dall’inizio della campagna con cui Haftar intende tuttora rovesciare il governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli, Foggy Bottom diffuse quella che ancora oggi è stata la dichiarazione più severa contro il signore della guerra della Cirenaica. Si chiedeva lo stop della missione di conquista è il ritorno allo “status quo ante”. Sforzo obliterato però nel giro di pochi giorni, quando si diffuse là notizia che il presidente Donald Trump (o qualcuno per lui: l’allora capo dell’Nsc, il falco interventista John Bolton?) aveva avuto una conversazione telefonica di supporto con Haftar.

Da allora gli Stati Uniti hanno tenuto un atteggiamento sostanzialmente distaccato, sebbene abbiano via via recuperato terreno sul lato tripolino. Riequilibrio che è arrivato anche dopo la sostituzione di Bolton da consigliere della Casa Bianca, il ritorno del dossier nelle mani del dipartimento di Stato, la nomina di un ambasciatore in Libia molto assertivo (che ha abbinato la sua azione diplomatica alla politica attiva di AfriCom), gli intensi contatti tra Trump e il turco Recep Tayyp Erdogan (protettore di Tripoli che adesso va molto d’accordo col Prez), e non ultimo il lavoro della Mercury Pubblic Affairs (la società di lobbisti che Tripoli paga 150mila dollari al mese, più 500mila anticipati, per curare le istanze del Gna a Capitol Hill).

Maiteeg ha avuto incontri anche al Tesoro. Si stima che finora la Libia abbia perso oltre 1,3 miliardi di dollari dal blocco imposto dalle forze di Haftar sull’esportazione del petrolio. Un argomento su cui gli Usa, diventati tra i maggiori produttori, hanno interessi diretti, in quanto temono che possa alterare il mercato e i prezzi. La Comunità internazionale ha già esortato il leader militare dell’Est ad agire responsabilmente evitando effetti economici catastrofici sul popolo libico. Ma è in corso una guerra: pressare sull’economia diventa un elemento utile per strangolare Tripoli. Nemico che, nonostante i buoni intenti di Berlino, Haftar vuole battere con le armi.

“L’effetto a catena derivante dall’uso della forza da parte del generale Haftar che ha bloccato la principale fonte di produzione di reddito del Paese è catastrofico per la capacità dei cittadini libici di accedere alle forniture mediche e alimentari”, spiega una fonte dall’entourage di Maiteeg. La situazione economica nel Paese nordafricano è stata un argomento chiave delle discussioni a Washington, spiega in modo riservato la fonte, rilevando che il vicepremier ha chiesto aiuto agli americani — trovando buona sponda — nell’impegno di far “riavviare la produzione il prima possibile in quanto comprometterebbe gli sforzi dell’Opec per frenare l’offerta globale”. Ça va sans dire che su tutto basterebbe un tweet di Trump per sbloccare la situazione…

 

 

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