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In qualche modo l’epidemia prodotta dal coronavirus Sars-CoV2 passerà, ma molte delle scelte che i governi fanno in questo momento resteranno – le emergenze d’altronde producono degli scatti che stimolano la velocità dei processi. “In tempi di emergenza e di paura è normale che l’equilibrio tra sicurezza e diritti si sposti verso la prima”, scrive Eugenio Cau, giornalista del Foglio che cura la newsletter “Silicio”. La discussione è molto ampia, ma – sebbene gli elementi tecnologici siano già stati messi sul capo da diversi governi (e altri li stanno rapidamente implementando) – trova spazio relativo. Un saggio articolato l’ha scritto sul Financial Times Yuval Noha Harari, professore di Processi macrostorici dell’Università Ebraica di Gerusalemme.

“Il modello di gestione dell’epidemia messo in piedi in alcuni Paesi, attraverso metodi come il geotracking, apre a scenari molto profondi, su cui attualmente nessuno governo sta stimolando una riflessione. Potrebbero cambiare i rapporti tra Stato e cittadini, soprattutto se si considera che le tecnologie messe in atto adesso possano diventare qualcosa di più ampio che forniranno dati più intimi delle persone. Qualcosa su cui si deve ricostruire una sorta di nuovo patto sociale”, ci spiega Maurizio Rossi, cofondatore di H-Farm, piattaforma di innovazione italiana.

Uno degli elementi di cui si discute di più è appunto il geotracking, che declinato nel caso delle epidemie diventa il tracciamento degli ultimi spostamenti di un malato e i suoi ultimi contatti (contact tracing), per ricostruire una mappatura del potenziale contagio. Come farlo è piuttosto banale: basta un’app su un telefonino, sbloccando in chiaro i dati per la georeferenziazione. Sebbene sia qualcosa di cui si parla molto in questo momento, un’applicazione del genere non è troppo diversa da quelle usate dalle aziende che forniscono servizi di trasporto-taxi lavorano sulla base di qualcosa di simile. Nel caso di situazioni epidemiologiche violente è stato già utilizzato in passato questo metodo di tracciamento.

Anche in Italia, dove finora si è fronteggiata l’emergenza con provvedimenti che sono un modello molto seguito – le chiusure e i blocchi per sopprimere il contagio sono ormai applicate anche da chi credeva nella possibilità di lasciarlo correre – è stata creata una task force governativa per ragionare su come avviare la fase di tracciamento che permetterebbe di mappare anche gli asintomatici (la notizia l’ha data Iacopo Iacoboni sulla Stampa). Il paradigma spesso usato è quello sudcoreano, dove il geotracking abbinato a una grossa quantità di test, isolamenti e disciplina individuale, ha premesso il contenimento del virus in modo molo rapido – dunque senza le pesanti conseguenze dei lockdown prolungati. Anche a Taiwan, Singapore Israele e pure in Cina s’è eseguito qualcosa di simile. Un confine importante riguarda il contesto democratico oppure autoritario dei vari paesi – nel caso cinese per esempio il tracciamento segue sperimentazioni che riguardano già una sorta di Grande Fratello con cui il Partito comunista tiene sotto controllo i cittadini.

Anche per questo, uno dei modelli che possono essere di riferimento diventa Israele , che ha applicato fin da subito strumentazioni di alta tecnologia per il contenimento dell’epidemia, sfruttando un background socio-politico e culturale che la porta in vantaggio nella gestione delle emergenze. “La settimana scorsa, per esempio, il governo israeliano ha autorizzato lo Shin Bet (il servizio segreto interno, ndr) a estendere ai contagiati di coronavirus la stessa tecnologia applicata per controllare i movimenti dei terroristi, appunto. Il software, che sta per diventare una app utilizzabile da tutti, sarà a giorni reso disponibile per informare i cittadini che si fossero trovati a meno di due metri da una persona infetta (senza rivelarne il nome) per più di 10 minuti”, spiega Davide Riccardo Romano, già assessore alla Cultura della Comunità ebraica di Milano.

L’esperienza israeliana è più vicina a quella italiana per riproducibilità rispetto ai contesti dell’estremo Oriente che dal punto di vista culturale e legislativo sono piuttosto differenti; “In effetti l‘Italia, grazie alla mafia e al terrorismo degli anni ’70, ha una serie di limitazioni della privacy per certi versi simili a quelle adottate da Israele nella lotta al terrorismo islamista”, aggiunge Romano. Essenzialmente il mix operativo è fatto da azioni difensive – le chiusure – e proattive contro il virus. In primis controlli a tappeto – “in Israele vengono effettuati tramite blocchi stradali drive through dal Maghem David Adom, gli automobilisti sono sottoposti a un test rapido di tre minuti”, spiega Romano: “Il primo comandamento israeliano è andare a cercare i contagiati e potenziali contagiati per isolarli”.

Inoltre, le persone messe in isolamento e contagiate sono controllate con un insieme di sensori – in Israele se ne è occupato direttamente l’esercito – che permettono di monitorare da remoto le condizioni dei malati. “È qui che però si apre lo scenario ulteriore, perché questi della salute sono dati intimi, che riguardano la salute e i comportamenti delle persone. Elementi su cui i governi devono essere al massimo trasparenti, garantendo la proprietà di quei dati ai cittadini stessi soprattutto nelle implementazioni che potrebbero seguire. Pensiamo ai dati da sistemi sottopelle”, conclude Maurizio Rossi.

Virus e tecnologia. Perché il modello Israele è riproducibile in Italia

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