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Nonostante le rassicurazioni e i moniti di Donald Trump, i turchi stanno colpendo le aree controllate dai curdi in Siria. Anche zone civili come Qamishli. Le operazioni, iniziate in questi minuti e annunciate qualche ora fa dal presidente Recep Tayyp Erdogan, coinvolgono a terra l’Esercito siriano libero, una formazione di ribelli siriani sunniti che hanno combattuto il regime di Bashar el Assad con l’aiuto occidentale, e che via via sono diventati una milizia filo-turca. Ora, nei canali Telegram, i miliziani incitano alla “massima violenza” contro i curdi.

Per quanto noto, dopo la telefonata tra Trump e Erdogan che ha convinto l’americano a spostare un piccolo contingente di forze speciali che nell’area di confine turco-siriana controllava le mire di Ankara, e dunque lasciare così spazio all’azione turca, s’era chiusa con una sorta di consenso tacito. Trump non ha accettato la possibilità di un’invasione su larga scala, ma avrebbe concesso la possibilità di passar sopra ad azioni mirate (fonte NBC).

Nell’area Erdogan progetta un ambizioso piano di ingegneria etnica, presentato ufficialmente all’Onu durante l’ultima Assemblea generale – il turco, per quel che si sa, sarebbe stato piuttosto indispettito dal rifiuto di Trump di incontrarlo, e per questo avrebbe chiamato Washington nei giorni scorsi, incalzando il collega americano che alla fine ha ceduto alle pressioni. Non sarebbe la prima volta, d’altronde.

Le volontà di Trump (che ritiene il ritiro dalla Siria una necessità sui cui ha basato promesse elettorali già quattro anni fa) si sono incontrate con le pressioni di Erdogan sia nell’aprile del 2018 che nel dicembre 2018, quando l’americano annunciò il rientro totale dalla Siria “entro un mese”, proprio dopo una telefonata Ankara-Washington. Per il turco, la presenza statunitense è d’intralcio al suo piano: creare una safe-zone con cui distanziare i curdi siriani, alleati del Pkk, dal confine, e contemporaneamente costruire un corridoio lungo cinquecento chilometri e largo trenta in cui spostare qualche centinaia di migliaia di profughi siriani finora ospitati sul territorio turco.

Il problema-Usa era collegato all’alleanza tecnica che gli americani avevano stretto con i curdi siriani per liberare tutto il nord della Siria dall’occupazione del Califfato, che una volta perso quelle zone si è trovato a non aver più la dimensione statuale che l’aveva reso un riferimento globale pre il terrorismo jihadista. Per questo nei giorni scorsi, dopo l’annuncio del disimpegno americano, Trump era stato molto criticato per aver “tradito i curdi”, alleati fedeli ed efficaci nelle battaglie cruciali contro lo Stato islamico di Abu Bakr al Baghdadi.

Ad agosto, i curdi avevano accettato di ritirarsi da diverse postazioni di difesa lungo la fascia adiacente al confine turco: erano stati spinti a distruggere gli avamposti e le fortificazioni dagli americani, che s’erano presi l’impegno di monitorare quella zona in partnership con la Turchia, e di difendere le milizie curde alleate da eventuali intemperanze di Ankara. Ora il rischio è che Erdogan approfitti di questo indebolimento per avanzare in Siria, e che si apra un conflitto dalle potenzialità devastanti. L’artiglieria curda sta rispondendo al fuoco e sparando oltre confine, mentre il centro di coordinamento delle Sdf – le milizie curdo-arabe anti-Is – dice che ci sono almeno 25 jet turchi attivi sopra il territorio del nord siriano.

Un argomento di cui poco si parla è la sovranità siriana in quell’area. Damasco è legittimo detentore di quel territorio che fa parte dello stato utopico curdo, il Rojava, e davanti all’attacco turco – e mancanti del sostegno americano – è possibile che i curdi, per pragmatismo, decidano di creare un qualche accordo col regime. Aspetto che amplificherebbe i rischi dell’allargamento del conflitto, creerebbe un altro focolaio all’interno di un quadrante delicatissimo; una caoticizzazione ulteriore che aprirebbe spazi per il ritorno dello Stato islamico, che sconfitto dal punto di vista statuale, resta comunque una forza strisciante rintanata aspettando l’occasione per tornare attiva.

C’è preoccupazione che vengano assunte “iniziative che possano portare ad una ulteriore destabilizzazione della Regione”. Così il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, in conferenza stampa con il Segretario Generale della Nato, Jens Stoltenberg: la Turchia è membro Nato. “L’attacco della Turchia va condannato con forza. L’Italia chieda la convocazione immediata del Consiglio NATO e del Consiglio di Sicurezza. Come Europa è ora di assumerci le nostre responsabilità: non lasciamo che la Siria precipiti di nuovo in una spirale di conflitto”, ha twittato pochi minuti fa Lia Quartapelle, capogruppo dei deputati Pd in Commissione Esteri.

Parole analoghe arrivano dal M5S. “Azioni unilaterali rischiano solo di pregiudicare i risultati raggiunti nella lotta contro la minaccia terroristica, a cui l’Italia ha dato un significativo contributo nell’ambito della Coalizione anti-Daesh e destabilizzare la situazione sul terreno”, ha commentato a caldo il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, con una nota della Farnesina. Anche da Londra e Parigi hanno chiesto la convocazione del Consiglio di Sicurezza, Berlino ha accusato la Turchia di destabilizzare la situazione e di creare i presupposti per la rinascita dell’Is.

Un aspetto é piuttosto evidente: se i curdi si dovranno concentrare contro i turchi, dovranno spostare forze impegnate nelle operazioni contro i baghdadisti rimasti.

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