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Date le scelte compiute nel redigere il Programma strutturale di bilancio, difficilmente poteva andare diversamente. Per cui il promettere successivamente una stagione di sacrifici, con la speranza di distribuirli con giustizia ed equità, come poi è avvenuto, ne rappresenta la più logica conclusione. Una prospettiva comunque poco entusiasmante. Deng Xiaoping, l’artefice della grande svolta cinese verso la modernità, era solito dire che il socialismo non può essere amministrazione della miseria.

Figuriamoci se questo può essere il programma di un Paese che è la seconda potenza industriale dell’Ue, ed ha un estremo bisogno di crescere. Cos’era successo? Probabilmente nell’impostare la manovra, ha pesato un ottimismo eccessivo ed è mancato un pizzico di senso politico. Elementi che, sommati insiemi, hanno prodotto quel corto circuito che, alla fine, ha determinato un piccolo crollo in borsa ed alimentato polemiche a non finire. Risalire pertanto alla genesi di quel pasticciaccio, può contribuire a far sì che quel precedente rimanga solo una sfortunata coincidenza. Sempre che le forze politiche sappiano trarre dalla lezione tutte le necessarie conseguenze.

Nell’impostare la manovra, che segnerà l’orizzonte operativo all’interno del quale calare i successivi numeri della legge di bilancio, Via XX Settembre partiva dai numeri indicati nel Def dello scorso aprile. In cui sembrava tutto fatto fin dall’inizio. Le finanze pubbliche italiane, secondo quelle previsioni a legislazione vigente, viaggiavano verso un radioso avvenire. Senza far nulla, nel 2026 il deficit di bilancio sarebbe sceso al 3%, ponendo, di fatto, fine alla proceduta per deficit eccessivi. Bastava quindi non agitarsi, pensando solo a trovare i soldi necessari per far fronte alla mini manovra: prorogare le una tantum fiscali (abbattimento del cuneo e modifica di alcune aliquote) e poco altro, per rendere tutti felici e contenti.

Alla base di quel moderato ottimismo la speranza, più che la previsione, di un tasso di crescita economico adeguato. Anzi più sostenuto rispetto alla media degli altri Paesi europei. Come era stato nel 2023, poteva, anzi doveva, continuare negli anni successivi. Lapidario il commento del documento governativo: “l’economia italiana nel corso del 2023 ha dimostrato una resilienza superiore alle attese, nonostante un quadro macroeconomico connotato da instabilità politica, elevata inflazione e da un ciclo restrittivo di politica monetaria, registrando un incremento del Pil dello 0,9%, in decelerazione rispetto al 2022, ma superiore a quello della media dell’area euro (+0,4%). In tale contesto, la previsione tendenziale del tasso di crescita del Pil si attesta, per il 2024, all’1% mentre si prospetta pari all’1,2% nel 2025, e all’1,1 e allo 0,9%, rispettivamente, nei due anni successivi.”

Per la verità, la Commissione europea si era mostrata scettica fin dall’inizio. Nelle previsioni di primavera dello stesso anno aveva indicato un tasso di crescita per il successivo biennio (2024/25) più contenuto. Soprattutto un deficit di bilancio ben più alto rispetto alle previsioni di via XX Settembre. Con una differenza che nel 2025 era pari ad 1 punto di Pil, che aveva portato l’asticella del deficit al 4,7% del Pil. Un’altezza tale da rendere estremamente improbabile l’ipotesi di poter raggiungere, l’anno successivo, il sospirato traguardo del 3 per cento e la fine dell’incubo della procedura per i deficit eccessivi.

Con coraggio o sprezzo del pericolo, questi segnali, erano stati ignorati puntando forse (ma chi può dirlo?) sulla revisione quinquennali dei conti pubblici, prevista dai programmi europei, che si sarebbe svolta in concomitanza con il varo del Programma strutturale di bilancio. Si sperava, infatti, che da quella revisione potesse derivare qualcosa di buono, in grado di portare acqua al mulino del governo, confermando le scelte anticipate. E così sarà, ma purtroppo solo in parte. Il maggior valore del Pil, alla fine del quinquennio, sarà consistente, ma forse inferiore alle attese. Si puntava su un target di circa 50 miliardi di euro, contro i 43 poi contabilizzati. Crescita comunque rilevante, risultando pari al 2,1% dei precedenti valori, riferiti al 2023.

Molto più deludenti invece le nuove stime sul deficit 2023. La teoria, oltre che l’esperienza, aveva sempre considerato la crescita del Pil un elemento importante della stabilizzazione finanziaria. Tanto maggiore era il tasso di crescita, tanto minore doveva risultare il rapporto deficit/Pil. I nuovi valori di quel rapporto, nonostante la maggiore crescita economica intervenuta, mostravano invece variazioni talmente trascurabili da non poter essere prese in considerazione dai sismografi fiscali. Si passava infatti da un 7,2%, come indicato dal vecchio Def ad un 7,18%. In pratica un niente e, al tempo stesso, un fenomeno, da decifrare.

La maggiore crescita del Pil era riferita, nella nuova serie elaborata dall’Istat, agli anni 2021 e 2022. Rispetto ai precedenti valori la differenza in positivo era risultata pari a 0,6 punti di Pil nel primo anno e 0,7 nel secondo, mentre nel 2023 il ridimensionamento era stato pari a 0,20 punti di Pil. Al tempo stesso il nuovo trend indicava chiaramente l’esaurirsi della buona stagione. La crescita maggiore si era avuta nel 2021, con un tasso dell’8,9 per cento che, nel 2023 si era ridotto allo 0,7 per cento. La maggior spinta propulsiva, per riprendere una vecchia espressione, era stata data dagli investimenti, soprattutto nel comparto delle costruzioni. Segno evidente del traino legato ai bonus per l’edilizia. Le ragioni ancora oggi sostenute da Giuseppe Conte e da tutti i 5 stelle. Che tuttavia non accennano minimamente alle contropartite.

Queste ultime erano date dal maggior tiraggio della spesa per i “contributi agli investimenti”, il cui peso sugli equilibri della finanza pubblica aumentavano di converso. Di quanto? Nei tre anni (2021/2023) il contributo medio delle costruzioni alla crescita del Pil può essere valutato in una percentuale pari al 20 per cento, ma il riflesso negativo della spesa per i relativi contributi al 73 per cento. Con un rapporto di 3,65 a 1. In altri termini, una proxy, come moltiplicatore fiscale, pari solo al 30%. Cui sommare gli effetti negativi del successivo tiraggio a carico del debito pubblico. Dal 2024 ed almeno fino al 2026, secondo le previsioni dello stesso Governo, quest’ultimo era destinato ad aumentare di oltre 5 punti di Pil, invertendo il suo precedente trend discendente, solo a causa del cosiddetto aggiustamento stock-flussi. A sua volta riflesso di uno scarto tra l’andamento delle entrate in termini di cassa e di competenza, dovuto all’errata contabilizzazione dell’onere effettivo, rappresentato dai bonus concessi a carico del bilancio dello Stato.

In questo quadro, così fragile, si inseriva infine un elemento imprevisto: la correzione operata dall’Istat delle sue precedenti stime sulla crescita del Pil, relativa al secondo trimestre dell’anno. I nuovi calcoli portavano la “variazione acquisita per il 2024”, secondo il comunicato ufficiale, “allo 0,4% in ribasso rispetto a quella diffusa” in precedenza “quando la variazione era stata stimata pari a 0,6%”. Un contraccolpo destinato a rimettere in discussione i fondamentali su cui era stato costruito il quadro macroeconomico, per i suoi effetti di trascinamento sugli esercizi futuri. E riaprire, di fatto, i termini della manovra. L’accenno del ministro Giorgetti alla necessità di sacrifici per tutti.

Una sorta di ravvedimento, quest’ultimo, destinato a lasciare l’amaro in bocca. Come detto all’inizio, sarebbe stata sufficiente una maggior prudenza. Bastava, ad esempio, prevedere una fuoriuscita dalla procedura per i deficit eccessivi non nel 2026, ma l’anno successivo. Si sarebbero conquistati dei margini che avrebbero reso la manovra meno rigida. E grazie a questa maggiore flessibilità, si potevano attenuare le spinte deflazionistiche che, in qualche modo, la caratterizzano.

Se poi le cose fossero andate meglio del previsto, sarebbe stato sempre possibile anticipare. Invece si è scelta una strada diversa sottovalutando, forse, la complessità del problema. Finché i nodi non sono venuti al pettine. Ed ora uscirne sarà tutt’altro che facile. Attribuirne le responsabilità solo ai tecnici di Via XX Settembre sarebbe, tuttavia, ingeneroso. La definizione di un programma a medio termine così impegnativo, capace di incidere direttamente sulla parte restante della legislatura, richiedeva un’attenzione maggiore da parte di tutte le forze politiche. Che, invece, non c’è stata. Salvo poi dover piangere sul latte versato.

Manovra, perché non poteva andare diversamente. Il commento di Polillo

Per evitare una manovra troppo rigida sarebbe stata sufficiente una maggior prudenza. Bastava, ad esempio, prevedere una fuoriuscita dalla procedura per i deficit eccessivi non nel 2026, ma l’anno successivo. Invece si è scelta una strada diversa sottovalutando, forse, la complessità del problema. Finché i nodi non sono venuti al pettine. Il commento di Gianfranco Polillo

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