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L’amministrazione Trump ha disposto dei divieti sul visto per i funzionari cinesi legati al programma di detenzione di massa nello Xinjiang, l’ultimo di una serie crescente di misure statunitensi per fare pressione su Pechino per quella che il Segretario di Stato, Mike Pompeo, ha definito “la macchia del secolo”. Ma il quadro è ampio e ci rientrano anche delle misure prese contro alcune ditte cinesi e in generale il confronto le due potenze.

Le restrizioni saranno imposte su funzionari del governo e del Partito Comunista (e di loro famigliari diretti) ritenuti responsabili o complici della detenzione e dell’abuso di uiguri, e altri gruppi etnici minoritari musulmani nella regione, che si trova sul prolungamento occidentale della Cina, al confine con Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Pakistan e una striscia esigua di Afghanistan (il Corridoio del Vacan, area permeabile, attraverso cui alcuni cinesi dello Xinjiang sono entrati in contatto con le istanze jihadiste regionali).

Le autorità cinesi stanno rinchiudendo circa un milione di musulmani in quella che la propaganda del governo chiama in modo inquietante “cure ospedaliere gratuite per le masse con pensieri malati”, ma che in altre parole non sarebbe sbagliato chiamare campi di concentramento. A causa delle difficoltà di visitare questi centri di detenzione, e perché Pechino minimizza sulla loro esistenza e sul loro ruolo, le informazioni di prima mano sono scarse. Le informazioni arrivano dai rari reportage giornalistici (la zona è off-limits, chiaramente) e da alcune testimonianze raccolte dalle organizzazioni per i diritti umanitari.

Alcuni detenuti vengono torturati. Altri sono costretti a sedersi per ore a cantare canzoni che lodano il Partito comunista cinese, l’istituzione ideologica che detiene il potere in Cina. Per i musulmani della regione, la maggior parte dei quali appartiene a una minoranza turcofona nota come uiguri, le violazioni si estendono oltre la prigione. Gli uiguri nello Xinjiang non possono indossare veli o barbe “anormali”. Alla fine del 2017, secondo quanto riferito, le autorità cinesi hanno ordinato loro di abbandonare i tappetini per la preghiera e il Corano.

Pechino la descrive come una caccia ai terroristi (alcuni uiguri si sono uniti al jihad califfale negli anni passati, e ancora prima ci sono stati episodi di ribellione contro il governo centrale). Le autorità cinesi monitorano i cittadini dello Xinjiang attraverso metodi di polizia predittiva. Li seguono con i sistemi per i riconoscimenti facciali, richiedono loro di installare sugli smartphone un’app — il cui nome si traduce in “pulizia del web” — che avvisa le autorità locali di contenuti “pericolosi”. Non possono nemmeno possedere determinati tipi di coltelli senza registrarli a causa delle paure che li possano usare per violenza. Nei giorni scorsi è stato molto ripreso dai media internazionali un video, diffuso anonimamente online, in cui si vedono centinaia di uomini detenuti nello Xinjiang in fila, in divisa da carcerati, scendere da un treno con una benda sugli occhi e le mani legate dietro la schiena.

“Gli Stati Uniti chiedono alla Repubblica popolare cinese di porre immediatamente fine alla sua campagna di repressione nello Xinjiang”, ha detto Pompeo autorizzando una mossa sulla base all’Immigration and Nationality Act, che consente al segretario di Stato di negare i visti di viaggio a persone il cui ingresso “avrebbe conseguenze potenzialmente negative sulla politica estera per gli Stati Uniti”.

Il divieto comunque è una questione simbolica più che altro. Gli alti funzionari cinesi viaggiano raramente all’estero, e dunque andando oltre la dimensione punitiva, molto riguarda il lato politico. Un modo con cui Washington reagisce davanti a tutto al dossier-Xinjiang e intende sottolineare le incongruenze del sistema-Cina partendo dalla più grande di tutte: un paese potentissimo che ha acquisito valore tramite lo sfruttamento degli spazi concessi dal mercato libero, che però per quanto riguarda libertà e diritti non ha intenzione di allinearsi agli standard internazionali dettati dal comparto valoriate dell’Occidente.  

Di più, perché tutto si inserisce nel confronto globale Usa-Cina, colpisce un nervo scoperto (Pechino odia che i propri crucci interni diventino pubblici), e arriva in un contesto delicato: il riavvio dei negoziati sul commercio previsto nei prossimi giorni. E infatti si sono già sentiti i contraccolpi sul mercato, con gli investitori che sentono l’aumento di queste tensioni tra i due paesi prima dei colloqui commerciali previsti per giovedì e venerdì.

L’ambasciata cinese a Washington ha dichiarato martedì, con una serie di tweet, che il Paese “deplora e si oppone fermamente” alla mossa, aggiungendo che le sue politiche erano volte a combattere l’estremismo e il terrorismo. Il presidente cinese Xi Jinping ha avviato la campagna per necessità, dopo una serie di micidiali attacchi terroristici ai civili a partire dal 2013, incluso un attacco in piazza Tiananmen, sostiene Pechino.

I divieti di visto sono stati imposti in coordinamento con un annuncio del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti che ha messo otto dei giganti della tecnologia cinese in una lista nera sulle presunte violazioni dei diritti. Washington sostiene che questa doppia decisione non è correlata ai colloqui commerciali. Ed è vero che, soprattutto il dipartimento di Stato, ha più volte denunciato la situazione nella regione cinese; un’azione che, dicono ai media fonti da Foggy Bottom, potrebbe aprire la strada a mosse simili dagli alleati europei e mediorientali (sebbene finora, a Riad e Abu Dhabi come a Teheran, la questione Xinjiang sia stata affrontata sempre con estremo pragmatismo, seguendo il risvolto anti-terroristico e chiudendo più di un occhio sulla campagna di rieducazione politico-culturale; va ricordato che molti di questi paesi sono in affari con la Cina).

Lunedì, il presidente americano Donald Trump ha messo (e non è una postura comune) il piano politico del confronto con la Cina in aderenza a quello negoziale, avvertendo che i negoziati commerciali ne risentirebbero in modo negativo se la Cina facesse qualcosa di “cattivo” per reprimere le proteste che si sono scatenate da quasi venti settimane a Hong Kong. Un altro dei caldissimi dossier interni su cui Pechino non accetta interferenze, e su cui Xi e il Partito sono messi alla prova.

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