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La morte del generale Qasem Soleimani segna un’altra frattura nel difficile rapporto tra Stati Uniti e Iran. È la prima volta dalla crisi diplomatica del 1979 che da Washington è partita un’operazione mirata contro l’uccisione di un alto funzionario iraniano. Ma che cosa succederà ora?

Un’analisi del Centro Studi Internazionali (Cesi) cerca di pronosticare gli effetti di questo nuovo scontro tra iraniani e americani, in Medio Oriente ma non solo.

La decisione di uccidere il comandante iraniano fa parte di una scelta di oltrepassare un limite nelle dinamiche di geopolitica internazionale, “seppur talvolta considerata sottile, che divide il target killing contro gruppi terroristici, proxy, gruppi paramilitari e l’eliminazione di un membro dell’apparato istituzionale di un altro Paese”, si legge nel focus. La morte di Soleimani, dunque, aumenta le possibilità di un caos generale a livello globale.

Il rischio è non solo per una dichiarazione di guerra, giacché ci sono possibili azioni di spionaggio, l’utilizzo di azioni clandestine di forze speciali e l’eliminazione di un esponente delle istituzioni. Il governo di Donald Trump ha voluto lanciare un forte messaggio alla regione.

Una decisione, rifiutata in passato da George W. Bush e da Barack Obama conferma la linea di Trump sulla politica internazionale, secondo il Cesi: “Non impostare una continuità lineare nella gestione del dialogo, ma a ricercare una alternanza di aperture e pugni di ferro, finalizzata a ribadire la posizione di forza giocata dagli Stati Uniti più che ad ottenere un risultato diplomatico concreto”.

La decisione americana arriva in un momento di grande difficoltà politica per il presidente Trump, tra la possibilità di impeachment e l’approssimarsi della campagna elettorale per le presidenziali di ottobre. È per questo che l’operazione contro Soleimani può essere letta come l’intenzione di mettere “un punto fermo sulla posizione dell’amministrazione rispetto a quell’escalation di tensioni che si era consumata in Iraq nei giorni precedenti tra Stati Uniti e milizie sciite, di cui l’Iran era considerato l’elefante nella stanza”.

Ma la strada è aperta per un’escalation, venuto meno quel principio di proporzionalità che aveva caratterizzato le reazioni tra Iran e Stati Uniti. Ora la “palla” è dalla parte iraniana. Il focus del Cesi ricorda che la questione nucleare “è da sempre usato più come arma di rivendicazione politica che come effettiva capacità strategica a disposizione delle Forze Armate iraniane. La probabile riaccensione della narrativa legata alla ripresa dell’arricchimento dell’uranio al di sopra della soglia limite del 20% e alle sperimentazioni e all’affinamento dell’arsenale balistico nazionale, dunque, sembra destinata ad alimentare quella retorica di antagonismo tra i due Paesi…”

L’Iran potrebbe decidere di spostarsi su un piano non convenzionale: annullando qualsiasi dialogo, e rapportandosi con organizzazioni di carattere terrorista, ma anche disseminando nuovi o vecchi fronti di instabilità scenari strategici come quello Medio Orientale, il Golfo o l’Afghanistan: “La capacità di attivazione della rete di alleanze e di interlocutori in un’area compresa tra il Libano e l’Asia Meridionale rappresenta non solo una mossa importante per cercare di fiaccare la resistenza del rivale statunitense, ma una questione sempre più di importanza strategica per la Repubblica Islamica e per il ruolo dei Pasdaran all’interno di essa”.

“L’ondata di proteste che ha infiammato l’arco dal Libano all’Iraq – conclude il Cesi – ha messo in evidenza l’esistenza di istanze nuove, che non si muovono su logiche di conflittualità etnica o settaria, ma rivendicano riforme impostate ad un ripensamento dell’identità nazionale in senso inclusivo. Un eventuale incremento dell’instabilità dei governi regionali a causa della pressione proveniente dalle piazze potrebbe tradursi in una maggior difficoltà per l’Iran di continuare a vedersi garantite tutte quelle porte aperte nei palazzi di potere a Beirut, Damasco, Baghdad che, seppur informalmente e in modo parallelo rispetto ai canali della diplomazia tradizionale, hanno fino ad ora garantito una pervasività dell’influenza iraniana oltre confine”.

Gli effetti della morte di Soleimani? Ecco il report del Cesi

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