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L’affermazione programmatica più importante del presidente del Consiglio incaricato Giuseppe Conte, per il tono aulico e altisonante con cui è stata pronunciata, è indubbiamente la proposta di un “nuovo umanesimo”.

Si sa che titoli del genere hanno una portata retorica pari soltanto alla loro completa mancanza di significato. Infatti, almeno di non essere Martin Heidegger che discute con Jean Paul Sartre sul senso dell’esistenzialismo contemporaneo, non vi è nulla di più inutile, inflazionato e quindi di maggiormente vuoto che tirare in ballo concetti generici e polisemantici come “solidarietà”, “responsabilità”, o, peggio ancora, “umanità”. Nel caso di “umanesimo poi la scelta lessicale diventa perfino imbarazzante, per non dire di peggio.

Insomma, in frangenti simili, tra il dire e il non dire è sempre meglio non dire niente.

Anche abbandonando tuttavia questo momento di caustica ironia, che comunque ammetto era inevitabile, e volendo prendere sul serio la cosa, il risultato purtroppo non migliora granché.

I fatti sono chiari: Conte propone all’Italia un nuovo umanesimo, declinandolo nel senso di una svolta progressista a favore del mondo intero e delle sue inquietudini, conosciuto al volo in questi mesi, certificando con tutta evidenza una muta interiore simile alla folgorazione di San Paolo sulla via di Damasco. Già, perché fino a ieri Conte si è cimentato a fare l’avvocato conservatore del popolo italiano, gestendo il progetto gialloverde, oggi ritenuto invece il nemico da abbattere in nome del nuovo e progressivo, magari rivoluzionario chissà, umanesimo giallorosso.

È così che va la vita e forse anche il senso della dizione nuovo antistante ad umanesimo, quando tutto deve assumere necessariamente per se stessi una fiabesca giustificazione progettuale. Come dire, io che ho conosciuto bene il vecchio umanesimo facendone parte, e non mi è piaciuto; ecco che adesso posso propinarvi autorevolmente il nuovo, che sicuramente non vi piacerà, perché io ne devo far parte. Di certo in queste giravolte spericolate, si potrebbe aggiungere, vi è unicamente il mal di testa che produce la complessità di una singolare traiettoria in chi tenta di seguirla, la quale per ora convince esclusivamente il progressista Donald Trump e i novatori burocrati di Bruxelles.

Via, siamo seri.

A prescindere dal fatto storico che umanesimo si dice in modi diversi e tra loro contraddittori, non tutti sono segnati dal positivo sbocco mecenatico di Lorenzo De’ Medici. Che dire, infatti, delle lotte religiose e delle intolleranze violente che hanno consumato la Guerra dei Trent’anni in nome dell’umanesimo; che dire del flagello che cent’anni di rivoluzione ha portato nel cuore della vecchia Europa cristiana, nel segno di un più alto umanesimo. Ciò di cui abbiamo bisogno oggi non è certo questa docta ignorantia rinascimentale, pronta a dover essere rinverdita a piacimento da nuovi epigoni dell’ultima ora. L’umanesimo vero non è alcun progetto nuovo per il semplice fatto che lo splendore dell’Italia è stato contrassegnato dalle Signorie medievali, dal proliferare dei Comuni, eredità ancora oggi raccolta nella varietà della nostra tradizione cristiana. È bene sapere, in fin dei conti, che ogni volta siano state evocate categorie tanto universali come queste è stato sempre per fare campagne imperiali a favore di grandi poteri, e mai per sostenere la fragile ed eterogenea realtà del nostro tessuto comunitario o per migliorare la vita della collettività.

Noi perciò non abbiamo bisogno di alcun nuovo umanesimo, ma semmai di recuperare il senso concreto di umanità presente in noi, quell’istanza profonda che viene percossa e umiliata da esterofile ambizioni pseudo intellettuali di alcuni nostri brillanti connazionali.

Oltretutto, come scriveva Jacques Maritain, l’unico vero umanesimo è teocentrico e non antropocentrico, quindi classico e non moderno, fondato sul senso dell’umile piccolezza del nostro contributo personale di servizio al bene comune e non sull’esuberanza titanica di ambire a rinnovare culturalmente tradizioni e mentalità più grandi di noi e, quasi sempre, più estese della nostra comprensione. L’umanesimo italiano vero non è nuovo: è quello eterno di Sant’Agostino, Sant’Anselmo, San Tommaso, San Bonaventura, teologi e filosofi di portata incommensurabile sebbene costantemente ignorati e dimenticati nelle scuole, un umanesimo classico che poco o nulla ha a che vedere con il falso umanesimo cui si ispira la vocazione culturale di questo esecutivo.

Forse varrebbe la pena di pensare in modo meno remoto e con più attenzione ai valori che ci sono vicini, capendo che la posta in gioco oggi sta proprio nel difendere noi stessi da illusori umanesimi che hanno per secoli spacciato per evoluzione progressiva la volontà egemonica di schiacciare e saccheggiare la ricchezza nascosta della nostra nazione, della nostra lingua e della nostra dignità italiana.

Chissà che in futuro qualcuno non scopra improvvisamente, dentro questo arzigogolato percorso personale, che il nuovo umanesimo era in definitiva un colore meno perfetto del precedente, e tenti irreparabilmente di completare la tinteggiatura già variopinta del proprio tessuto con ulteriori ed originali sfumature trasformiste, fino a rendere il nuovo umanesimo simile al vestito di Arlecchino.

Il nuovo umanesimo giallorosso non mi convince. L’opinione del prof. Ippolito

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