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Il governo giallorosso non è ancora partito e già rischia di prendere una multa per eccesso di velocità. Non perché lavori troppo, ma perché corre, sgomita e pretende troppo a poche ore dal giuramento al Quirinale. La quiete seguita alla tempesta di un mese di crisi che ha stordito il Paese e disturbato le agognate vacanze estive a milioni di italiani sembra già far spazio a nuove nubi. Sciolte le righe al Colle i ministri si sono appropriati dei rispettivi dicasteri. Tempo di svuotare gli scatoloni e sono iniziati i primi battibecchi. Complici alcune sortite poco caute in un momento in cui il silenzio sarebbe d’oro.

Così la neoministra dem delle Infrastrutture Paola De Micheli, alla sua prima esperienza ministeriale e tuttavia figura molto apprezzata tra i maggiorenti del Pd (di cui è stata finora vicepresidente) si è intrattenuta in una lunga conversazione con La Stampa in cui ha snocciolato da cima a fondo il programma di governo per i prossimi anni, tracciando paletti molto netti. No alla revoca delle concessioni ad Autostrade, sì alla Tav, sì alla Gronda, sì alle grandi opere. A tratti sforando un po’ dal suo campo d’azione, come quando ha parlato di Libia e di Alitalia, dossier che giacciono (e lì devono stare) rispettivamente alla Farnesina e al Mise. Tanto è bastato per sottoporre la ministra al fuoco amico, se così si può chiamare, dei Cinque Stelle. Fra i pentastellati sono in molti ad aver digerito controvoglia il matrimonio con i dem e c’è già chi ha rotto la tregua. “Il Movimento ha il 36% dei parlamentari e il Pd il 18%, serve umiltà” ha tuonato contro di lei Michele Giarrusso.

Polemiche sterili e facilmente evitabili. Che il Pd sia convintamente schierato sulla linea del sì per le grandi opere è un segreto di Pulcinella che certo i Cinque Stelle non potevano ignorare quando hanno deciso di sedersi a un tavolo con la squadra di Zingaretti per formare un nuovo governo. La questione Tav peraltro è stata archiviata con un voto al Senato che ha visto i due partiti su posizioni opposte, i dem in maggioranza e i grillini all’angolo. Pensare di dar battaglia sulla Torino-Lione a due giorni dal giuramento significa bucare le gomme del governo prima che possa accendere il motore.

L’euforia ovviamente ha già portato a “sgrammaticature” (copyright Giuseppe Conte) bipartisan. Tale si deve ritenere la boutade del neoministro dell’Istruzione in quota M5s Lorenzo Fioramonti, che a poche ore dall’incarico ha preteso, minacciando le dimissioni, un miliardo di euro in fondi per la scuola. Intenzioni nobili che poco si addicono nella forma e nei toni al momento politico, e soprattutto offrono il fianco della nuova maggioranza alla Lega che non può più staccare la spina ma può ben sperare che gli altri facciano da sé.

Merita una menzione la riunione dei ministri Cinque Stelle alla Farnesina, da due giorni casa del nuovo ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Forse non il luogo ideale per un caminetto di partito mentre il governo è ai nastri di partenza.

Sono istantanee che non fanno onore a una maggioranza nata con l’intento di durare fino alla fine e soprattutto di fare più e parlare meno. Eppure quattordici mesi di sfuriate casalinghe gialloverdi dovrebbero aver insegnato qualcosa. C’è un motivo se Conte continua a svettare nei sondaggi di gradimento. Parla poco, lavora in silenzio. E se decide di intervenire lo fa solitamente nelle vesti di presidente del Consiglio e non di capo popolo. Prima di giurare di nuovo nelle mani di Sergio Mattarella il premier ha lanciato un nuovo appello per scongiurare stalli, minacce, insulti e teatrini. Di quel “bis” gli italiani non hanno proprio bisogno.

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