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Evoluzioni su svariati altri fronti rischiano di lasciare indietro un dossier importante che si sta via via surriscaldando e su cui l’americano Donald Trump ha investito diverso capitale politico: la Corea del Nord. Dove eravamo rimasti? Recap. Dai toni guerreschi di inizio mandato – quando Trump ha approcciato la questione d’impeto, per segnare una discontinuità rispetto alla pazienza strategica che aveva segnato le amministrazioni precedenti, soprattutto quella Obama, che aveva affrontato tutto con lentezza – un anno e mezzo fa, sotto una spinta forte con cui il nuovo inquilino della Casa Bianca intendeva risolvere la questione nucleare di Pyongyang, si era arrivati a costruire una bozza di dialogo.

Complice Seul – dove siede un presidente che fin dalla campagna elettorae crede nella ricostruzione delle relazioni intra-coreane – Trump aveva abbassato i toni e avviato un percorso che lo aveva portato a un primo incontro con il satrapo Kim Jong-Un, a Singapore (giugno 2018), seguito da un altro ad Hanoi (febbraio 2019) e infine uno a sorpresa a Panmunjom (luglio 2019), villaggio di confine lungo la linea demilitarizzata che divide la penisola coreana, spaccata da una guerra in cui negli Cinquanta gli Stati Uniti hanno preso parte.

Il primo incontro s’era chiuso trionfalmente, Trump annunciava che Kim aveva accettato la denuclearizzazione, ma la questione era rimasta in sospeso in realtà proprio perché le due parti intendono quel concetto in modo nettamente diverso: Washington pensa all’eliminazione totale delle armi atomiche nordcoreane, Pyongyang pensa più che altro a essere inserita in un qualche sistema di controllo degli armamenti (implicito, in questo caso, l’accettazione del Nord come potenza nucleare). Il secondo vertice era finito anche per questo con Trump che aveva battuto i pugni sul tavolo, abbandonando i colloqui senza nessun passo avanti.

Spin politico a parte: quello non si è mai fermato, e fin dall’inizio della stagione negoziale la narrazione americana dice che tutto procede come dovrebbe, salvo poi qualche uscita laterale di pseudo-disperazione – “siamo fermi senza soluzioni in vista”, dicono le gole profonde che parlano con la stampa per sfogare un’evidente insofferenza davanti allo stallo. Tutto sembrava però riaccendersi con il terzo faccia a faccia, che era sembrato la riapertura di un canale diretto tra leader. Aspetto che comunque è uno degli elementi disfunzionali della trattativa: Trump e Kim parlano, scambiano sorrisi, photo-opportunity, passaggi storici (Trump che scavalca simbolicamente il 38esimo parallelo che divide le Coree, per dire), si inviano lettere cordiali e promuovono intenti che poi, quando gli incontri passano al livello di funzionari – e dunque nella fase concreta di costruzione degli accordi – stentano a procedere.

Da agosto la Corea del Nord ha ripreso i test missilistici – e dunque nemmeno l’incontro Panmunjom del mese prima ha portato benefici. Lancia vettori moderni, di capacità inferiore a quelli intercontinentali su cui Kim ha promesso una moratoria a Trump. Sono comunque messaggi di nervosismo a bassa intensità, ma la Casa Bianca lavora per recepirli in modo morbido: il presidente sminuisce, dice che con il satrapo va tutto bene, i rapporti sono buoni, qualcosa arriverà.

Si parla della riapertura dei negoziati tra delegazioni nei prossimi giorni, ma intanto Pyongyang si porta avanti: secondo l’ultima analisi della immagini satellitari pubblicata tre giorni fa dal Center for Strategic and International Studies (CSIS) – un think tank di Washington che ha un programma di monitoraggio continuo sul Nord che si chiama “Beyond Parallel” – i tecnici della base navale Sinpo si starebbero preparando per un test di un missile balistico sottomarino.

Non è una novità assoluta, sono almeno tre anni che procedono certi lavori, e semmai l’esame dal satellite diventa la conferma di quanto riportato anche a luglio dai media statali nordcoreani, che vantavano – mostrando immagini non esaustive – la costruzione di un nuovo sottomarino strategico e dei missili annessi. Però, spiegano gli analisti che hanno redato lo studio, costruire un SSB (sottomarino con missili balistici) “rappresenterebbe un significativo progresso del programma di missili balistici nordcoreano e della minaccia nucleare collegata”, perché “complicherebbe la pianificazione della difesa nella regione, date le difficoltà di tracciare e/o prendere di mira preventivamente tali assetti”.

Kim è piuttosto nervoso. Scommettere su qualche forma di limitazione del suo status nucleare ha significato avviare il dialogo con gli Stati Uniti, considerati i nemici principali ed esistenziali dal Nord, ma per ora non ha portato frutti. E dunque deve tenere una postura rigida, sia per cercare di stressare il dossier, sia per mantenere presa sul potere davanti a coloro che se non fosse che il dissenso di solito a Pyongyang finisce male, criticherebbero il dialogo col nemico.

Addirittura il leader nordcoreano è arrivato a dare un ultimatum a Washington: se entro la fine del 2019 non sarà avviato il sollevamento della sanzioni (che strozzano l’economia della satrapia) allora i contatti salteranno. Trump appoggerebbe anche qualcosa del genere, vuole un accordo e sa che per trattare serve anche di cedere, ma gli apparati riportano la trattativa sul piano della politica tra stati – che in fase di negoziato è più rigida del business world (per dire: concedere un alleggerimento è l’accettazione implicita dello status atomico nordcoreano, un processo che non si può avallare a cuor leggero perché cambierebbe il quadro di sicurezza nella regione, questione su cui rientrerebbero anche le policy con la Cina, attualmente insieme alla Russia e all’Iran tra i pochi alleati di Pyongyang).

Qualche giorno fa, al capo del Pentagono, Mark Esper, è stato chiesto come vede la situazione, e lui l’ha paragonata all’Unione Sovietica: “Crescendo negli anni ’70 e ’80, non avrei mai pensato che avremmo visto cadere l’Unione Sovietica, ma lo ha fatto”. Non sarà piaciuto a Kim il paragone, ma il senso c’è, e arrivato a questo punto l’approccio americano sembra simile alla pazienza strategica usata precedentemente. Solo con qualche contatto in più, che mantiene Pyongyang protetta dagli effetti negativi dell’isolamento totale (con i cinesi e i russi che stanno sfruttando gli spazi concessi dal vuoto controllato attorno a Kim).

Intanto martedì, gli ambasciatori all’Onu di Regno Unito, Francia e Germania hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che condanna l’ultima ondata di test di Kim. Quelli che Trump ha minimizzato come “very very minors“. Un’altra discrepanza di approccio, che per allinea gli europei alle visioni di apparati come il Pentagono: i test ci sono stati, non si può far finta di niente dicono.

Giovedì il ministro degli Esteri della Corea del Nord – Ri Yong Ho, l’uomo che copre i consessi internazionali al posto del Leader – ha fatto sapere che il mese prossimo non sarà a New York per partecipare all’assemblea generale delle Nazioni Unite. È la prima volta dall’inizio del suo mandato nel 2016 che Ri salta l’assise: la decisione è da leggere come un altro messaggio diretto agli Stati Uniti, una sorta di auto-isolamento per indurire i rapporti.

Nel viaggio era previsto un incontro col segretario di Stato americano, Mike Pompeo, che ha tenuto le relazione nella fase iniziale dei negoziati, ma ultimamente Pyongyang ha fatto sapere che non è più persona gradita perché è promotore di una linea più aggressiva di quella del presidente Trump – anche il Nord, come altri rivali americani, cerca di dividere le due anime dell’amministrazione americana, quella più classica e rigida degli apparati, da quella più fantasiosa e pragmatica dello Studio Ovale.

Ieri, il viceministro degli Esteri nordcoreano, uno che dovrebbe guidare i negoziatori, ha commentato sulla Kcna che Pompeo è andato così in là con la sua dialettica che  il lavoro nei colloqui “diventa difficile”. L’americano, martedì, parlando dal palco dell’American Legion National Convention, aveva detto di dover riconoscere che “il comportamento da stato canaglia della Corea del Nord non poteva essere ignorato”. Parlava dei test missilistici.

 

Il dossier Corea del Nord è stanco e Kim deve riprendere la linea dura

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