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L’accordo con gli Stati Uniti non è stato ancora firmato, ma Pechino ha già pagato un prezzo e nemmeno troppo leggero. L’export della Cina, seconda economia mondiale, è letteralmente crollato lo scorso febbraio, registrando il tonfo più pesante negli ultimi anni. Per un Paese che negli ultimi due decenni si è letteralmente divorato fette di mercato grazie ai suoi prodotti e alla sua tecnologia, è un brutto colpo.

Febbraio 2019 verrà ricordato come uno dei mesi più bui per l’economia del Dragone. Lo scorso mese le esportazioni cinesi sono calate del 20,7% su base annua, segnando la più grande discesa da febbraio 2016 e risultando molto inferiori delle stime (-4,8%) e all’ultima rilevazione (+9,1%). Le importazioni (-5,2% su base annua) sono scese per il terzo mese consecutivo, deludendo le attese (-1,4%) e al di sotto del dato precedente (-1,5%). In tutto ciò bilancia commerciale presentava un surplus per 4,12 miliardi di dollari, nettamente inferiore all’ultima rilevazione (39,16 miliardi).

Di più. Per i primi due mesi del 2019, le esportazioni e le importazioni cinesi sono diminuite rispettivamente del 4,6% e del 3,1%, portando ad un avanzo commerciale di 43,7 miliardi di dollari. Eliminando gli effetti del Capodanno lunare, l’agenzia doganale cinese ha spiegato che le esportazioni e le importazioni di febbraio sono aumentate rispettivamente, rispetto all’anno precedente, dell’1,5% e del 6,5%. Non stupisce dunque che la Borsa di Shangai abbia chiuso la seduta in calo del 4,4%, trascinando il grosso dei listini asiatici.

Risulta fin troppo evidente dai numeri come Pechino stia vivendo un complesso momento dal punto di vista della domanda e dell’offerta. Senza dimenticare che il 2018 si è chiuso per l’ex Celeste Impero con il Pil ai minimi dal 1990, cioè dalla fine del comunismo. Il pericolo è comunque stato fiutato dal governo di Xi Jinping, il quale ha fatto incardinare in Parlamento a tempo di record una legge per facilitare gli investimenti esteri, con l’obiettivo non dichiarato di agevolare l’intesa con gli Usa, ma soprattutto di ridare slancio all’import. Il Parlamento cinese ha infatti annunciato di aver iniziato a lavorare a una bozza di legge sugli investimenti esteri, da approvare entro il prossimo 15 marzo. Il disegno di legge vieta, tra le altre cose, il trasferimento illegale di tecnologia e le “interferenze governative illegali” nelle imprese straniere, e viene così incontro alle richieste di Washington, la quale accusa Pechino di rubare tecnologia americana. Si vedrà se la mossa cinese per superare la crisi commerciale avrà il suo effetto.

C’è però un’altra locomotiva finita a corto di carbone. La Germania. Berlino, che in questi mesi sta vivendo seri problemi con le sue banche (qui l’articolo di Formiche.net sui guai di Deutsche Bank), sta facendo i conti con un progressivo arretramento della sua manifattura, che comunque rimane la prima in Ue. A gennaio gli ordini dell’industria tedesca sono calati bruscamente, registrando una contrazione del 2,6% del dato destagionalizzato dopo l’aumento di dicembre con il dato rivisto. Si tratta della flessione più alta dallo scorso giugno quando si registrò un meno 3,6%. Ora, se gli Stati Uniti dovessero davvero innalzare le tariffe di importazione al 25% sulle auto prodotte in Europa, per la Germania primo produttore europeo e secondo al mondo con Volkswagen, sarebbero guai. Serissimi.

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Cina e Germania, due locomotive a corto di carbone

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