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Uno dei motivi che ha permesso alla civiltà occidentale di dominare il mondo in età moderna è stato senza dubbio la presenza in essa di una diffusa e dinamica classe media. La borghesia, come già aveva sottolineato Marx, è classe rivoluzionaria per eccellenza: con il suo attivismo, la sua intraprendenza, la volontà di oltrepassare le frontiere pratiche e morali della nostra esistenza, muta di continuo non solo i rapporti sociali ma la faccia del mondo.

Uno dei fattori per cui il marxismo è fallito è nel fatto che la previsione sulla progressiva “proletatarizzazione” del ceto medio si è dimostrata errata. Lungi dal mostrare in questo modo le sue contraddizioni, come voleva la dottrina, il capitalismo ha mostrato invece di saper allargare sempre più l’area della borghesia agli stessi proletari.

Nell’ultimo dopoguerra, il motore dello sviluppo occidentale sono stati i consumi, anche voluttuari, alla portata di tutti. Ora, a tutta evidenza, sembra che proprio questo meccanismo, almeno in Occidente, si sia negli ultimi anni interrotto. La classe media è sempre più in difficoltà e il numero dei “nuovi poveri”, di chi a fatica riesce a raggiungere la fine del mese, cresce secondo le statistiche, e direi anche a vista d’occhio.

Ma prima e oltre che economica, la frattura sembra esistenziale: il mondo si divide sempre più fra chi è dentro (insider) e chi è restato fuori (outsider), fra chi domina i meccanismi della vita tardo-moderna e chi invece è digitalmente e praticamente analfabeta, fra chi cade sempre in piedi e chi non riesce ad agguantare gli strumenti indispesabili ad entrare nel “cerchio magico” dei vincenti.

Detto in poche parole, si è spezzata la mobilità sociale e la meritocrazia è tornata ad essere subordinata al censo e alle condizioni di nascita. La divisione, in una parola, è fra “élite” e “popolo”. E si riflette, da qualche anno, in politica, con l’emergere di forze “populiste” e “sovraniste” che contrastano la sbandierata distanza dalla massa e il carattere sostanzialmente apolide delle classi dirigenti. Ed è ovviamente una lotta fra due élite, di cui una però vuole essere portatrice degli interessi e dei valori dell’ “uomo comune” e spesso “dimenticato”, mentre l’altra crede che quegli interessi e valori debbano essere emendati e corretti ispirandosi a principi ritenuti superiori perché puramente razionali.

In sostanza, si è creata una reazione, anche confusa e contraddittoria, ai processi di globalizzazione e alle élite transnazionali che l’avevano promossa. Quale sarà la nuova sintesi sociale, e conseguentemente politica, che emergerà da questo scontro fra tendenze diverse e confliggenti? La èlite del futuro sarà ancora quella tendenzialmente liberale e meritocratica che ha dominato il mondo occidentale, o se ne prospettano di altre e diverse? Si creeranno meccanismi di redistribuzione del potere e delle ricchezze, o si andrà sempre più verso la polarizzaine degli estremi?

Intanto, bisogna fare a mio avviso una considerazione. Le élite “liberali” sono in crisi non tanto a cagione dell’apparizione di forze non liberali sulla scena del mondo, quanto soprattutto per il fatto che esse hanno in qualche modo tradito il “liberalismo”. L’aggressione ad esso si è mossa, supergiù a partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, lungo due direttrici: una potremmo dire “di sinistra”, con il predominio di una visione astratta dell’etica e del diritto che ha preso corpo e forma nel cosiddetto “politicamente corretto”; l’altra “di destra”, con la riduzione del liberalismo al momento individualistico dello scambio sui mercati dell’economia e della vita.

Ad un certo punto, la globalizzaione si è presentata attraverso la convergenza di queste due spinte, entrambi fortemente disciplinanti ed entrambi tendenti a neutralizzare il conflitto, cioè fare a meno della politica. Tutt’altra cosa dal liberalismo classico, che invece ha sempre guardato il potere in faccia e non si è mai proposto di mettere in scacco la sua forza e cogenza se non contrapponendo ad esso altri e diversi poteri che lo limitassero e controllasero. A mio avviso proprio questa necessità di tornare alla politica, e al liberalismo correttamente inteso, è segnalata dall’irrompere odierno delle forze antisistema. Le quali non sono il problema, ma un effetto di esso. Proprio sulla speranza che, in nuove e forse inimmaginabili forme, si torni a fare politica si gioca però la possibilità che il futuro conservi marcati tratti di libertà e umanità. Chiudersi a riccio e contrastare il nuovo che ancora non capiamo potrebbe essere fatale.

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