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In Venezuela, il leader Leopoldo López si è recentemente rifugiato nella sede dell’ambasciata spagnola a Caracas, mentre il governo di Madrid ha dichiarato che non rilascerà mai López al governo di Maduro.

Venticinque altri militari ribelli hanno poi chiesto asilo all’ambasciata del Brasile, ma è da notare che prima López si era recato alla sede diplomatica del Cile, anche se ha dichiarato, dopo essere stato accettato dalla diplomazia spagnola a Caracas, di non aver mai chiesto asilo politico.

Ma molti venezuelani hanno, comunque, accettato di scendere in piazza, dove sono morti recentemente altri due giovani, il che va ad aumentare fino a 55 il numero delle vittime della repressione di Maduro dall’inizio di quest’anno. L’opposizione ha denunciato altri 74 feriti gravi, poi 168 arresti, tra i quali almeno una decina di giornalisti.

Intanto, il presidente ad interim Juan Guaidó passa da un nascondiglio all’altro, facendosi però vedere dalla folla il 1° maggio, per dichiarare uno sciopero, a breve termine, di tutti i lavoratori venezuelani.

Nicolás Maduro ha risposto solo il giorno dopo alla chiamata allo sciopero insurrezionale di Guaidó, ma era una trasmissione in tv mandata, evidentemente, in differita.

GLI STATI UNITI E IL TENTATO GOLPE

John Bolton, poco dopo, nel suo ruolo ufficiale di consigliere per la Sicurezza Nazionale di Donald Trump, un vecchio erede della politica estera neocon, ha informato i media internazionali che il ministro della Difesa Vladimir Padrino López, il presidente del Tribunale Supremo Maikel Moreno e il direttore della Dirección General de la Contrainteligentia Militar, Ivan Hernandez Dala, avevano negoziato direttamente con gli Usa per rimuovere Maduro.

Instillazione di sospetti nella élite di Maduro, o anche verità? E quindi, guerra psicologica, piuttosto palese, o indecisione, da parte degli Usa, tra la scelta di operare un golpe interno al partito di Maduro, con elementi di qualche fiducia da parte degli Usa, o ancora la conferma della fiducia di Washington nei confronti di Juan Guaidó?

Mike Pompeo, Segretario di Stato di Trump ed ex-Direttore della Cia, ha poi affermato che Maduro era già su un aereo diretto a Cuba, immediatamente dopo le manifestazioni del 1° maggio, ma che i russi gli hanno, duramente, ordinato di rimanere in Venezuela.

E se il motivo del tentato golpe di Guaidó, che ormai non riscuote più molto del sostegno che si era guadagnato all’inizio della sua rivolta, fosse, per gli Usa che lo sostengono, il solito, banale, petrolio?

Con il prezzo del barile intorno ai 50-60 Usd al barile, il prezzo del petrolio venezuelano è ancora accettabile, ma si tratta di idrocarburi pesanti, che hanno bisogno di successive e, ovviamente, costose raffinazioni ulteriori. La Exxon-Mobil cerca ancora di acquisire la zona estrattiva di Essequibo, area  la cui sovranità su di essa è ancora discussa tra Venezuela e Guyana. Ci sono ancora 15 miliardi di barili/giorno di petrolio non ancora estratto, in Venezuela, oltre a ben 42 trilioni di piedi cubici di gas naturale. Il Venezuela è ancora il secondo Paese, se non il primo, a seconda delle prospezioni, come riserve disponibili di petrolio e di gas. Un dato da non dimenticare mai. Ma, se gli Usa stanno sfruttando soprattutto i loro bacini nazionali e stanno vendendo gas naturale e petrolio, via mare, anche ad alcuni Paesi europei.

Quindi, il problema degli idrocarburi venezuelani non è oggi, per Washington, quello di prenderli, malgrado il costo di produzione del barile sia ancora, nel Paese latinoamericano, minore dello shale oil and gas del bacino Permiano statunitense, ma soprattutto di evitare che quel petrolio e gas lo utilizzino la Cina e la Federazione Russa.

IL PETROLIO VENEZUELANO LONTANO SIA DA CINA SIA DA RUSSIA

Negli anni del forte ribasso del barile, fino al 2016, Maduro scelse di conferire ben il 49,9% di una consociata della Pdvsa, la Citgo, alla Rosneft russa, in cambio di un prestito, a fronte del trasferimento delle azioni della società  di 1,5 miliardi di dollari, direttamente allo stato venezuelano.

Ma la Russia è, anch’essa, un esportatore netto, e Dio solo sa quanto potente, di gas e petrolio, con una direzione primaria dei suoi mercati verso l’Ue.

Ma, in questo caso, il petrolio venezuelano poteva essere, per Mosca, un forte modo di far pressione, proprio per il prezzo più basso del greggio di Caracas, contro gli Usa, per diminuire i danni  delle sanzioni Usa (e Ue) alla Russia per la questione ucraina.

Quindi, spendendo relativamente poco, 1,5 miliardi di usd, la Russia diventava il vero arbitro del petrolio venezuelano, per usarlo come arma di ricatto contro gli Stati Uniti.

Non a caso, infatti, un gruppo, di composizione poco chiara, di investitori Usa ha, nel febbraio 2018, ha tentato di ricomprare la quota russa della Citgo, chiedendo al governo di Caracas di accettare il pagamento, a loro, del resto del prestito russo e chiedendo, inoltre, alla Rosneft di trasferire il totale rimanente del prestito già concesso a Caracas alla nuova Citgo. Inutile aggiungere che l’offerta è stata declinata. Gli Usa stanno poi operando, come sempre accade in questi casi, con le pressioni economiche e gli embarghi.

Washington sta creando un ulteriore embargo per la Petróleos de Venezuela, ovvero la Pdvsa intera, iniziato giuridicamente ai primi del gennaio 2019. Il che significa che i proventi dei petroli di Caracas saranno limitatissimi, come se fosse, il Venezuela, un ostaggio economico.

Per favorire, anche tra le élite del “sistema Maduro”, il passaggio nel campo di Washington, invece che rimanere nell’ambito del controllo economico russo (e iraniano, per l’economia criminale non-oil).

Il desiderio di Trump di invadere il Venezuela è ormai ben noto al pubblico internazionale, almeno dalle dichiarazioni presidenziali del giugno 2018, quando, in una riunione nell’Ufficio Ovale, Trump espresse questo chiaro desiderio all’allora segretario di Stato Rex Tillerson, già presidente della Exxon-Mobil, e anche  all’allora consigliere per la sicurezza nazionale, gen. MacMaster. Nessuno dei due advisor era, sia chiaro, favorevole all’operazione.

MADURO E I RAPPORTI CON LA RUSSIA E LA CINA

Maduro, sempre più pressato dalla crisi economica internazionale e da quella, colossale, interna, forte soprattutto per i Paesi oil dependant, ha conferito, sempre ai russi, e alla fine del 2018, l’accesso delle imprese del forte settore minerario russo alle miniere di oro venezuelane, quelle che crearono il mito dell’Eldorado nella Spagna del secolo XVII. Ci sono anche disponibilità minerarie in Venezuela per il nickel, i diamanti, il ferro, la bauxite, l’alluminio.

Ma, naturalmente, la nuova collocazione strategica e politica dell’America Latina, soprattutto dopo l’elezione di Bolsonaro in Brasile, è tutta a favore degli Usa e, specificamente, di Trump, mentre gli asset a favore della Federazione Russa diminuiscono.

E questo significa che Mosca si terrà, insieme ai suoi alleati tradizionali, come la Cina, molto stretto il Venezuela, soprattutto per fini geopolitici, e sempre di meno per obiettivi strettamente economici.

Mentre la vera variabile strategica sarà, tra poco, la Cina: accetterà di partecipare al sostegno, molto interessato, dei russi per il regime di Maduro, prendendosi quel che rimane dell’economia venezuelana, oppure accetterà la sommessa proposta di Washington, ovvero quella di prendersi buona parte del Venezuela dopo aver rotto, almeno in America Latina, i legami di Pechino con Mosca?

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