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Le navi delle Forze di autodifesa marittima giapponese potrebbero iniziare presto operazioni di scorta alle petroliere in transito nel Golfo Persico.

Il Japan Times riporta un dibattito interno a Tokyo tra le varie componenti politiche, che ruota attorno tre aspetti. Primo, le elezioni per la Camera dei consiglieri (la camera alta giapponese) che si terranno il 21 luglio: un momento delicato, perché la coalizione conservatrice al governo punta a mantenere il controllo di due terzi, per portare la Dieta ad approvare riforme alla rigidissima costituzione post-bellica, passaggio con cui il premier Shinzo Abe vuole entrare nella storia — e che comprende anche la strutturazione di un esercito in quanto tale, e non più solo autodifesivo com’è il Jieitai, anche se le linee guida per questa normalizzazione dal punto di vista strategico e militare sono già operative, una trasformazione in forze multidimensionale passata anche da un link cardine con gli Stati Uniti: l’acquisto degli F-35.

La missione nel Golfo infatti potrebbe essere potabile anche senza mettere mano alla costituzione, o meglio all’articolo 9 che impone la rinuncia eterna alla guerra: c’è già approvato da tempo un pacchetto di leggi sulla sicurezza nazionale che facilita l’intervento delle Forze di autodifesa all’estero anche in missioni di appoggio a forze alleate. E comunque già prima, nel 2009, Tokyo aveva inviato pattugliatori aerei P-3 sopra al Golfo di Aden per la missione anti-pirateria nelle acque davanti alla Somalia. È il secondo argomento di discussione: c’è un precedente ed è del tutto simile, anche in quell’occasione c’era da proteggere navi commerciali dai rischi di aggressioni in un altro tratto di mare cruciale. Stavolta la missione si renderebbe necessaria per monitorare le petroliere e sarebbe altrettanto importante. Problemi di sicurezza ai traffici del greggio sono lo scenario più temuto nel quadrante, e anche per questo sono l’elemento più delicato nel confronto tra Stati Uniti e Iran. C’è anche un fatto recentissimo: una delle petroliere sabotate davanti al porto emiratino di Fujairah a metà giugno era giapponese, la Kokuka Courageous. È dunque un aspetto che mette la sicurezza nazionale in primo piano, anche perché l’80 per cento del petrolio in arrivo in Giappone passa per il Golfo.

Qui il terzo elemento, l’allineamento con gli Stati Uniti — questione delicata. Alcuni parlamentari di maggioranza ci tengono a precisare che l’eventuale missione giapponese sarebbe scevra da pressioni Usa. Ma si sa che Donald Trump — che con Abe ha sfruttato la golf-diplomacy per costruire un rapporto empatico personale e di mutuo interesse — da tempo ha apertamente chiesto ad altri paesi di costruire una missione comune per monitorare le petroliere nel Golfo, e per il presidente americano dovrebbero essere proprio coloro che hanno più interessi a iniziare certe operazioni. Il Giappone è tra questi paesi, così come il Regno Unito, che nei giorni scorsi in effetti è stato già impegnato in queste attività al fianco di due tanker inglesi — sebbene il potenziale futuro inquilino di Downing Street, Boris Johnson, abbastanza trumpiano, ha detto ieri che non appoggerebbe nessuna azione militare americana contro l’Iran (azioni che comunque è Trump il primo a non volerle, almeno al momento).

L’interesse statunitense non è legato al petrolio, non soltanto almeno — Washington con gli shale oil s’è sganciata dalla dipendenza mediorientale, ma non Londra o Tokyo. La questione è molto politica: una coalizione di pattugliatori potrebbe essere un’altra dimostrazione di forza davanti a Teheran. E il ruolo del Giappone non sarebbe secondario: Abe, nei giorni più caldi del confronto Usa-Iran (quelli dell’abbattimento di un drone americano per mano dei Pasdaran), era a Teheran per una visita piuttosto finalizzata all’avviare una qualche via negoziale con cui portare l’Iran davanti a Trump. In questo delicato poker tra potenze, il bluff sta nel creare i presupposti politico-militari — ed economici, tramite le sanzioni sul petrolio — per far sedere Teheran in una posizione indebolita anche per via della forza/compattezza del fronte che dovrebbe contenerlo.

O per lo meno questa è l’intenzione americana. Quanto ne siano convinti i giapponesi non è dato saperlo. Ma di mezzo c’è anche un piano di livello ancora superiore per cui Tokyo vuol dimostrarsi un affidabile sparring partner di Trump: da tempo si discute della possibilità che il Giappone entri a far parte del Five Eyes, la potentissima alleanza di intelligence capitanata dagli Stati Uniti che permette lo scambio di informazioni cruciale nel mondo anglofono.

Il Giappone è nella partita con l’Iran. Come piace a Trump

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