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“Le petroliere sono un simbolo. Il più grosso timore collegato al Golfo Persico è che gli iraniani decidessero di assaltare un tanker nello Stretto di Hormuz. Farlo, come hanno tentato l’altro ieri col cargo inglese, permette a Teheran di dare una dimostrazione plastica che sono in grado di materializzare quelle paure”, Eugenio Dacrema, Associate Research Fellow del MENA Centre dell’Ispi, analizza così le evoluzioni che riguardano il quadrante caldissimo nel cuore del Medio Oriente, terreno dove si concretizza il confronto tra Stati Uniti (e alleati) e Iran.

Cosa stanno facendo gli iraniani? “Secondo me, in questo momento gli iraniani hanno deciso di giocare una partita pericolosa, però stanno provando a scoprire il bluff degli americani, e quello degli inglesi (che si trovano a dover seguire gli americani per trovare un posto nel mondo dopo la Brexit), e potrebbero incassare risultati”.

Un po’ di contesto: ieri la Royal Navy ha inviato nel Golfo il cacciatorpediniere “Duncan” in sostituzione della fregata “Montrose”, che due giorni fa sarebbe intervenuta in copertura al tanker “British Heritage” aggredito dai barchini dei Pasdarn. Teheran smentisce, secondo la CNN i droni americani avrebbero ripreso la scena, mostrando che la fregata inglese ha puntato i cannoni sulle imbarcazioni iraniane che avevano circondato la petroliera. Le navi da guerra di Sua Maestà da qualche giorno compiono attività di bodyguard sulle petroliere inglesi perché da Teheran hanno promesso rappresaglie dopo che un team di Royal Marines ha sequestrato al largo di Gibilterra un’imbarcazione iraniana carica di greggio diretto in Siria. Violava le sanzioni Ue, è il motivo per cui Londra è intervenuta; nei giorni scorsi è stato arrestato prima il capitano, poi altri due membri dell’equipaggio (tutti iraniani).

Di che gioco parliamo? E qual è l’obiettivo soprattutto? “Ora la Repubblica islamica sta cercando di dimostrare a se stessa e agli altri quanto possa giocare di potenza e da potenza, e con le potenze. Paesi con i quali finora non ha mai potuto alzare il livello di confronto diretto, e usato per certe manovre attori minori come Hezbollah o i gruppi sciiti. Ora alzano il tiro, sono coinvolti direttamente, perché sono abbastanza consapevoli che non difficilmente ci sarà un’escalation: ci saranno risposte e mosse aggressive, ma saranno simboliche, prima o poi sia Washington che Londra si fermeranno e difficilmente si spingeranno alla guerra. Certo, il gioco regge finché c’è una via di uscita reciproca, che permetta di salvare la faccia alle controparti. Chiaramente se quella via di fuga dovesse venir meno perché ci si spinge troppo oltre nel confronto, tutti diventa più problematico. Ma secondo me tutto finirà con un vertice molto mediatico che salverà tutti”.

Ma perché siamo arrivati a questo? Il Jcpoa (acronimo tecnico dell’intesa sul nucleare iraniano del 2015, ndr) non era un grande accordo. È una cosa da riconoscere, che ha dato la possibilità a Trump di fare Trump. È, o era, un l’accordo con delle falle strutturali notevoli. Se l’obiettivo era qualche quello di essere qualcosa in grado di creare quell’apertura e quell’inclusione dell’Iran all’interno di un dibattito regionale, da cui si sarebbero potuti distendere e normalizzare i rapporti tra le potenze locali per far in modo che quei paesi si sarebbero gestiti da soli (ossia permettere il ritiro americano), il Jcpoa non era sufficiente”.

Dunque era un’intesa tecnica collegata al nucleare, ma non era quel presupposto per la costruzione di un’architettura di sicurezza e stabilità regionale? Esattamente: per carità l’aspetto del nucleare, su cui funzionava, è certamente una cosa primaria. Quando Trump si tirò fuori dall’accordo, un ricercatore tedesco disse che togliersi dal Jcpoa era uno sbaglio perché uscendo ci avrebbe impedito di fare in futuro quelle cose che vorremmo fare e che sappiamo non faremo fai. Mi sembra un’ottima analisi”.

Ossia, quale è stato l’errore? “Si pensava che partendo dalla questione nucleare si sarebbe potuto instaurare un ciclo positivo che poi avrebbe abbracciato tutto il resto delle questioni, ma c’erano due errori di fondo. Primo, il Jcpoa era il massimo che Obama poteva ottenere negli Stati Uniti (ed ha forzato per arrivarci) ed era il massimo che gli iraniani potevano concedere davanti all’ala dura”. Dunque il presupposto era debole: una sorta di accontentarsi. “Secondo, si è voluto chiudere in tempo per far sì che potesse essere la legacy di Obama in politica estera, mentre in quel momento s’era creato un tavolo multilaterale forte, a cui partecipavano anche la Cina e la Russia, e con più pazienza si poteva ottenere molto di più, facendo molte più pressioni sugli iraniani”.

Hormuz, il gioco pericoloso dell’Iran spiegato da Dacrema (Ispi)

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