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La rapida avanzata di Haftar ha conquistato grandi porzioni di territorio libico e si è arrestata alla periferia di Tripoli dove è in corso una guerriglia urbana tra opposte fazioni. Il governo di Al Serraj ha reagito all’attacco, colpendo le forze di Haftar con raid aerei e incursioni militari, forte del sostegno delle milizie di Misurata.

Le possibilità di conquistare la capitale appaiono ridotte. Sia per la resistenza delle forze leali al governo di Tripoli. Sia per la situazione sul territorio che vede le forze assedianti dispiegate su un’ampia zona, spesso ostile, in carenza di adeguato supporto logistico per condurre una guerra. Sia per il costo politico che avrebbe, sul piano internazionale, un bagno di sangue nella capitale, che coinvolgerebbe inevitabilmente i civili. I morti sono già numerosi e nessuno vuole una nuova Siria al centro del Mediterraneo.

L’uomo forte della Cirenaica conosce troppo bene il suo Paese e le forze in campo, per non essere consapevole dei limiti della sua azione bellica. È quindi ragionevole supporre che la sua iniziativa sia stata presa per tentare una spallata al governo di Serraj, sperando di far leva sullo scontento popolare e sulle milizie meno fedeli. Ma con un piano B: se la conquista di Tripoli diventa impossibile o troppo onerosa in termini militari e di vite umane, l’obiettivo si sposta sul piano politico ed economico.

È chiaro che aver posto sotto il proprio controllo gran parte del territorio libico, comprese le aree occidentali dove si trovano gli impianti petroliferi, permette ad Haftar di avere una posizione di forza a qualsiasi tavolo di trattativa, nazionale e internazionale, a partire da una prossima conferenza di riconciliazione nazionale, che sostituisca quella già prevista a Ghadames.

Sul piano internazionale, il ridimensionamento del governo di Serraj e dei suoi alleati, appoggiato dall’Italia, dall’Onu, dalla Turchia, dal Qatar e da esponenti dei Fratelli musulmani, corrisponde alla dinamica diplomatica in atto. Innanzitutto l’Italia, primo alleato di Serraj, si trova in una situazione di difficoltà nelle relazioni internazionali, sia con lo storico alleato americano (che infatti si è disimpegnato sul fronte libico, pur appoggiando una soluzione pacifica della controversia, e non sembra disposto a fare pressioni sull’Arabia saudita), sia con la Francia (che sostiene la soluzione diplomatica ma non sembra aver fatto quanto in suo potere per fermare Haftar).

In secondo luogo gli alleati di Haftar hanno interessi largamente coincidenti con quelli del generale di Bengasi: la Francia, in quanto sensibile a un revisione della politica petrolifera della Libia e attualmente non solidale con l’Italia; l’Egitto, perché ostile ai Fratelli musulmani e interessato ad avere un ruolo sul confinante territorio libico, anche in chiave di lotta al radicalismo islamico; l’Arabia saudita, essendo favorevole a un contenimento del Qatar spesso accusato di rapporti con aree dell’estremismo islamico; la Russia, ben disposta ad avere un referente al centro del mediterraneo, sia per ragioni strategiche che di politica energetica.

Inoltre, ed è la cosa più importante, l’avanzata di Haftar ha posto sotto il suo controllo gran parte dell’industria petrolifera libica, tra cui i giacimenti di Sharara gestiti dall’Ente petrolifero libico e da un gruppo di società estere (compresa la Total francese) e di El-Feel, attualmente sotto l’egida dell’Eni, e l’intera area della Sirte, con importanti centri logistici. All’assediato governo di Tripoli restano alcuni giacimenti petroliferi offshore e impianti di gas naturale, con una limitata capacità produttiva.

Questo significa che se la situazione sul territorio si consolida, anche senza la conquista di Tripoli Haftar è in grado di controllare il grosso della produzione petrolifera e quindi può rinegoziare la spartizione delle risorse energetiche del Paese, ridimensionando a suo vantaggio il ruolo della compagnia petrolifera nazionale, la Noc, in termini di suddivisione degli introiti, delle rendite e dei commerci con l’estero.

In tale quadro, Haftar non ha interesse a ulteriori spargimenti di sangue e tantomeno a mettere a rischio uomini e impianti delle compagnie petrolifere, Eni e Total sopra tutti (ed infatti giungono notizie tranquillizzanti dal personale Eni rimasto sul posto).

Se le cose non gli sfuggiranno di mano, e in guerra è sempre possibile, è ragionevole pensare che il suo piano B consista nel cercare una stabilizzazione territoriale, sulla quale creare un nuovo assetto di potere. Magari fondato, all’esito di difficili trattative, con le armi pronte a sparare di nuovo, sul riconoscimento internazionale di aree separate di sfruttamento petrolifero. Magari in attesa di provare di nuovo ad assumere il controllo di Tripoli in futuro, con nuove alleanze.

L’incognita a questo punto è la posizione del governo di Tripoli che non sembra disposto ad accettare lo status quo anche per l’opposizione delle milizie di Misurata, e chiede il ritiro delle forze di Haftar, con obiettivi chiari: evitare di vivere sotto la costante minaccia della presenza di milizie ostili alla periferia della capitale; non veder ridotto eccessivamente il proprio ruolo sulla scena interna e internazionale; contrastare l’espansione del peso politico ed economico di Haftar, che comporterebbe nel tempo un riassetto a suo favore delle alleanze tra le diverse milizie.

L’interesse prioritario dell’Italia è la stabilizzazione della Libia, anche per scongiurare una crisi umanitaria con ricadute migratorie. Questo significa che il governo italiano è chiamato a ricercare prima di tutto una mediazione tra le parti che possa portare a un cessate il fuoco. Oggetto delle trattative il ritiro parziale delle forze di Haftar, in modo da proteggere Tripoli da future aggressioni, garantendo tuttavia ad Haftar il controllo del territorio dove si trovano importanti giacimenti e un riconoscimento internazionale, in chiave politica e di libertà di commercializzazione del petrolio. Il tutto in vista di una nuova conferenza nazionale di riconciliazione.

Nel suo sforzo di mediazione tra le parti in conflitto, all’Italia farebbe molto comodo avere alleati forti e disponibili a supportare le trattative gestite dal governo Conte. Purtroppo la crisi libica è arrivata quando le relazioni con gli Usa scontano ancora i problemi di incerta collocazione strategica della nostra politica estera, in particolare verso la Cina e la Russia, riducendo la disponibilità americana a fare pressioni su Arabia saudita ed Egitto, per ammorbidire le posizioni di Haftar; e i rapporti con la Francia sono al minimo storico, complicando i canali di trattativa col generale di Bengasi.

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