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Il campus italiano della Temple University, la cui sede centrale si trova a Philadelphia, ha ospitato ieri un incontro con esperti giornalisti americani ed italiani per discutere la delicata questione della crisi del giornalismo. Tra i relatori, David Boardman, decano del Klein College of Media and Communication della Temple University a Philadelphia, Massimo Franco, colonnista del Corriere della Sera ed analista politico, Aaron Pilhofer, professore di “Journalism Innovation” presso l’Ateneo, e Nicole Winfield, corrispondente il capo per l’Associated Press in Italia e al Vaticano.

LA CRISI DELLA STAMPA

L’argomento focus dell’incontro è stato quello della crisi della stampa, analizzata attraverso un approccio multilivello che ha toccato argomenti come le fake news, la crisi delle democrazie occidentali, i social media e la disinformazione online. Boardman ha sottolineato come l’esperienza giornalistica sia cambiata a seguito dell’erosione dei rapporti di intermediazione tra Politici e popolo attraverso i giornali. Analizzando il linguaggio con cui Trump “twitta” con la cittadinanza americana, si è parlato di come in molti contesti europei si stia seguendo questo trend, al punto che spesso frasi e concetti si ripetono in più lingue diverse. Per quanto riguarda le accuse di fake news, che ormai circondano ogni lato dell’arena politica, il fenomeno è diventato così dirompente da – in alcuni casi – sostituirsi all’informazione tradizionale, andando a generare discredito nei confronti del giornale come promotore degli interessi di una determinata compagine politica. “C’è una crisi di fiducia che si manifesta nel giornalismo, ma che parte da una generale e ben più ampia crisi della democrazia”, ha affermato il decano, sottolineando l’importanza di continuare a lavorare perché l’ignoranza non prevalga sulla sana informazione.

LE DIFFERENZE TRA STAMPA ITALIANA E AMERICANA

Massimo Franco ha raccontato di come, nel corso degli anni e a causa di una progressiva perdita di fiducia della popolazione nelle istituzioni, tutto ciò che alle stesse è collegato, sia stato automaticamente delegittimato. Considerando, dunque, la velocità con la quale news (vere o meno) circolano sui nuovi sistemi di comunicazione online, la mole di individui che assimilano questo bagaglio cresce sempre di più, mentre la minoranza informata diventa sempre più esigua. L’esperienza di Nicole Winfield presso l’Associated Press ha invece un taglio differente, in quanto la diffusione di fake news è talmente rilevante negli Stati Uniti da costringere telegiornali, giornali e radio a concentrare i propri servizi non su “cosa è successo oggi” ma su cosa “non è successo”. Un’ulteriore differenza tra la stampa italiana e americana, afferma l’esperta, riguarda il pubblico a cui sono normalmente direzionati gli articoli di approfondimento. Secondo lei, un articolo americano tende a concentrarsi sulle domande principali che circondano un avvenimento (dove, quando, chi), lasciando anche un breve spazio per una piccola ricapitolazione di quanto accaduto in passato. In Italia, invece, gli articoli sono più complessi e articolati, particolarmente approfonditi quando chi legge si è già documentato sulla vicenda, ma difficilmente comprensibili per qualcuno che ne sa di meno.

IL RAPPORTO TRA STAMPA E ISTITUZIONI

Franco ha anche sottolineato come sia cambiato il rapporto tra potere politico e stampa negli ultimi anni. In Italia soprattutto, i governi che hanno preceduto l’attuale (senza particolari distinzioni tra destra e sinistra) hanno sempre avuto rapporti discreti con il sistema mediatico, mentre attualmente il passaggio da opposizione a maggioranza non ha comunque visto Lega e Movimento Cinque Stelle “fare pace” con i media tradizionali. Insomma, la televisione non sembra più capace di rimodellare le opinioni dell’elettorato, e questo fenomeno è il frutto di una disintermediazione che ha eroso senza sconti il ruolo dell’informazione, sostituita a tutti gli effetti da un nuovo tipo di rapporto diretto tra politico e cittadino, come spiegato da Aaron Pilhofer. A concludere è Massimo Franco, il quale tende a sottolineare come siano stati i giornali stessi a voler necessariamente identificarsi vicini all’establishment, utilizzando accezioni e definizioni negative per tutte le nuove correnti populiste in costante crescita. “Dovrebbe essere una responsabilità dei giornalisti quella di capire che le persone si sentono abbandonate, e che se l’informazione tradizionale non ne comprende le ragioni, parlando di volontà popolare come di un qualcosa di necessariamente negativo, allora la crisi non avrà mai fine”. La Winfield ha poi rimarcato questo punto, ricordando come i “salotti” giornalistici delle coste americane avessero dato per scontata – erroneamente – una vittoria di Hillary Clinton alle elezioni del 2016, incapaci di comprendere quali umori si muovessero tra la popolazione.

IL LATO POSITIVO

Secondo quanto affermato dagli esperti intervenuti alla conferenza, diversi studi statistici rivelano come i giovani –cresciuti nell’era di internet – siano maggiormente abituati a fare opera di fact checking, risultando più “immuni” alle fake news. Il problema si manifesta maggiormente nelle generazioni più vecchie, non solo per una minore dimestichezza con lo spazio informatico, ma perché più abituate a “fidarsi” di quello che leggono. Oltre a questo, un ulteriore dato positivo sottolineato dall’esperto di innovazione Aaron Pilhofer è il fatto che in questi anni si stanno creando numerose opportunità per creare prodotti digitali innovativi. Il mestiere del giornalista quindi, grazie alle nuove generazioni e ai prodotti digitali 2.0, non sta affrontando una crisi definitiva, ma un’epoca di cambiamento che gli permetterà di modellare le attività rispetto alle esigenze di un nuovo pubblico.

Disinformazione e fake news. Perché il giornalismo è in crisi

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