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Foxconn, società taiwanese che produce gli iPhone di Apple nelle sue fabbriche in Cina, potrebbe essere finita nel mirino delle autorità di Pechino. Nel corso del fine settimana, diversi stabilimenti e uffici in quattro province diverse sono stati soggetti a controlli sulle tasse e sull’utilizzo del terreno. Nel dare la notizia, il Global Times, testata in lingua inglese controllata dal Partito comunista cinese, ci ha tenuto a specificare che si trattava di “normali attività di vigilanza del mercato, ragionevoli e legali”.

La stretta sul business estero

Questo è solo l’ultimo esempio della pressione di Pechino sulle società estere che operano entro i confini cinesi. Nel corso dell’estate hanno fatto scalpore le incursioni delle autorità negli uffici di gruppi stranieri come Bain, Mintz, Capvision. Contestualmente a realtà come Deloitte sono arrivate multe multimilionarie e il consiglio di “imparare la lezione”, mentre diversi dirigenti bancari hanno raccontato di essere stati spinti a studiare il pensiero del presidente cinese Xi Jinping.

Di recente, ricorda Bloomberg, un dirigente e due ex dipendenti di Wpp sono stati arrestati. A marzo è stata la volta di un dipendente di una società giapponese di commercio di metalli, rivela oggi Nikkei, e a ottobre un tribunale ha accusato un dirigente di Astellas Pharma per sospetto spionaggio. Contemporaneamente la paranoia di Xi ha colpito anche la libertà di viaggiare dei quasi ottanta milioni di cittadini cinesi che lavorano per realtà statali.

Sono tutti effetti a cascata delle nuove leggi anti-spionaggio cinesi, secondo cui “gli stranieri e le organizzazioni straniere presenti nella Cina continentale […] non devono mettere in pericolo la sicurezza nazionale cinese, danneggiare l’interesse pubblico della società o minare l’ordine pubblico della società”. Una direttiva che si traduce in controlli a strascico, volti a verificare quanto le aziende aderiscano ai dettami del Partito-Stato e a combattere lo spettro dello spionaggio.

Effetto avverso

La conseguenza di questa stretta, sintomo della deriva nazionalista di Pechino, è che improvvisamente la Cina è diventata un ambiente molto più inospitale per le realtà business estere. Vanno letti in quest’ottica il deflusso di investimenti occidentali dal Celeste Impero e le mosse di de-risking delle realtà estere. Le stesse Apple e Foxconn, i cui successi sono indissolubilmente legati alle operazioni in Cina, stanno lentamente spostando i processi di produzione in altri Paesi asiatici.

A poco sono valsi gli sforzi delle autorità cinesi per tamponare questa tendenza e attirare finanziamenti esteri, che pure sono essenziali per affrontare la poli-crisi dell’economia cinese. Un sintomo del fatto che gli investitori stranieri si fidano sempre meno del regime di Xi. È in questo contesto che si colloca la notizia della perquisizione delle operazioni di Foxconn, ed è per tutti questi motivi che il Global Times ha voluto enfatizzare la presunta “normalità” dei controlli.

La lente taiwanese

Ma la vicenda è anche politica – per forza, essendo che riguarda la questione irrisolta di Taiwan, che Pechino vede come una provincia ribelle. Foxconn ha “l’obbligo di cooperare e mantenere congiuntamente l’ordine del mercato” e “correggere eventuali violazioni”, ha dichiarato al Global Times il classico esperto interpellato a supporto delle tesi del Partito, Zhang Wensheng, vice preside dell’Istituto di ricerca su Taiwan dell’Università di Xiamen.

Lanciandosi in un peana su come Pechino abbia sempre trattato favorevolmente le aziende taiwanesi – che danno lavoro a oltre un milione di cittadini cinesi –, Zhang “ha osservato che le aziende dell’isola, tra cui Foxconn, non solo dovrebbero beneficiare delle opportunità di sviluppo e dei dividendi della terraferma, ma anche assumersi le relative responsabilità sociali”, dunque “contribuire attivamente alla promozione di relazioni pacifiche attraverso lo Stretto [di Taiwan] e svolgere un ruolo positivo nel loro continuo sviluppo”.

In pratica, il quotidiano di propaganda cinese sembra dire tra le righe che Foxconn non starebbe svolgendo quel ruolo positivo che vorrebbero le autorità cinesi – che poi sarebbe l’unificazione a tutti i costi. Ed è difficile non collegare l’avvenimento con le elezioni presidenziali taiwanesi in vista per il 2024, in cui gareggia Terry Gou, fondatore di Foxconn dimessosi apposta dal cda per partecipare come candidato indipendente.

Coercizione in sordina?

Il punto è che Gou è considerato vicino alla Cina. Vanta ottimi rapporti con Pechino in virtù delle operazioni di Foxconn e all’inizio della campagna aveva dichiarato che il suo obiettivo è “la pace tra le due sponde dello Stretto”. Una posizione decisamente morbida contando che al di là del mare c’è una potenza impegnata in prove generali di invasione, a cui gli altri partiti taiwanesi rispondono con una retorica pro-indipendenza.

Tutto considerato, non è irrealistico pensare che l’indagine su Foxconn possa essere un avvertimento di Pechino: scegliete bene, o andrà peggio per le aziende taiwanesi in Cina. Una forma di coercizione che rientra nella spinta nazionalista del Partito-Stato, la stessa che sta impattando tutte le altre realtà straniere. E se per queste altre entrano in campo anche considerazioni di carattere economico, che possono portare Pechino a rallentare la stretta in un momento in cui servono investimenti, per il regime nazionalista di Xi la questione taiwanese è esistenziale.

Pechino contro Foxconn: nazionalismo, coercizione, Taiwan. Ecco cosa c’è dietro

Le autorità cinesi si sono imbarcate in una crociata di controlli sull’azienda taiwanese. È l’ultimo esempio della stretta anti-spioni di Xi, che riguarda realtà sia nazionali che estere e continua a spaventare gli investitori esteri. Ma c’entra anche il fatto che il Ceo di Foxconn sia in lizza per le elezioni taiwanesi

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