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A ognuno il suo. Dal palco del festival di Limes a Genova il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha rivendicato con un guizzo d’orgoglio una potestà che spetta a lui e nessun altro: la delega ai servizi segreti. Il pretesto della vindicatio potestatis del premier è ancora una volta il dossier cinese, e in particolare la possibile adesione italiana alla Belt and Road Initiative (Bri) in occasione della visita del presidente Xi Jinping a Roma il 21 marzo. “Posso dirvi che sono responsabile dell’intelligence ­– ha spiegato Conte intervistato da Lucio Caracciolo – non ho delegato questa prerogativa, seguo io questo comparto e questo mi permette di avere una visione complessiva delle problematiche”.

Mentre continua la melina dei due partiti di maggioranza sui moniti del governo americano, che ha messo in guardia Palazzo Chigi dallo slittamento geopolitico del Belpaese a Oriente e nello specifico dalla “trappola del debito” che si cela dietro il mastodontico piano infrastrutturale del Dragone, con un intervento a gamba tesa il premier ha assunto su di sé il dossier difendendo una delle (poche) aree di competenza non ancora intaccate dall’onnipresenza dei due vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

A Genova, con qualche acrobatismo lessicale, Conte ha optato per la prudenza, senza sminuire le preoccupazioni di Washington né tantomeno calare il sipario a priori sulle avances di Pechino. “Ho sollecitato il comparto dell’intelligence perché sia definito in termini di strumenti operativi il perimetro di sicurezza nazionale”. Tradotto, l’ultima parola sul caso Bri l’avranno, prima ancora della politica, i Servizi, che sanno quali e quanti rischi corre il Paese ad aprire porte e porti alle mire cinesi.

Non solo alla nuova Via della Seta. Sulle spalle del premier incombe il pressing degli alleati per un’altra questione aperta: l’eventuale esclusione dai bandi per la rete 5G di aziende cinesi come Huawei e Zte, accusate da una coalizione internazionale a guida Usa di spionaggio industriale e ingerenze cyber. Anche qui Conte ha centellinato le parole: “Huawei e Zte operano da anni in Italia con risultati proficui e sono molto integrate nel settore delle infotelecomunicazioni”. Insomma, la linea per il momento rimane quella sostenuta dal Movimento Cinque Stelle e del suo capo politico Di Maio, contrario a fare marcia indietro e tener fuori i cinesi dalla banda larga.

“Sicuramente esiste un problema di sicurezza delle informazioni ­­– ha ammesso Conte – ma quando uno si confronta con un contesto diverso deve tener conto delle sue peculiarità, il governo cinese esprime una particolare forza attrattiva sulle aziende statali e non”. Le richieste di Pechino, ha garantito il premier, saranno vagliate dal Cvcn (Centro di valutazione e certificazione nazionale, un organismo simile, ma meno determinante, al Cfius americano) previsto dalla Direttiva Nis “per evitare che queste partnership di carattere commerciale possano pregiudicare le nostre esigenze di sicurezza e per agire con maggiore determinazione in funzione preventiva”. Domani sarà il turno del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) che audirà Conte nel pomeriggio per chieder conto al premier, e a nessun altro, sulla strategia per gestire l’avanzata cinese nello stivale.

Ci penso io. Il premier prende su di sé il dossier cinese

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