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Secondo le informazioni della Tv israeliana i24News, guerriglieri Houthi sarebbero arrivati al confine israelo-siriano per rafforzare la presenza militare attorno allo stato ebraico. Si sarebbero posizionati attorno alle Alture del Golan, area contesa che da oltre un decennio e usata dai Pasdaran (il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica) per attaccare Israele. Si è sempre trattato di attività a bassa intensità, ma adesso “è un preludio a una nuova fase di escalation contro Israele”, minaccia una fonte anonima del gruppo yemenita che parla con Sputnik.

Il media russo di solito diffonde informazioni utili per il Cremlino, che in questo momento intende sottolineare come l’isolamento in cui si è posto Israele — a causa della gestione eccessivamente violenta della guerra nella Striscia di Gaza — stia procurando l’esplosione di un conflitto regionalizzato. Nel seguire questa linea Mosca contesta l’appoggio occidentale allo stato ebraico — e nel farlo calca sulle divisioni interne all’Occidente, dove emergono con insistenza voci che vorrebbero una linea più critica contro Gerusalemme.

Questa attività russa — e cinese — è diffusa tramite informazione orientata ed è soprattutto  presente nella narrazione strategica attorno al conflitto mediorientale, scatenato dopo che il 7 ottobre scorso Hamas ha attaccato Israele. Tuttavia, esistono già notizie non corroborabili riguardo alla presenza di unità dell’intelligence militare russa, il Gru, al fianco dei miliziani yemeniti — così come di armi cinesi in Yemen (ma questo è quasi normale). Altrettanto, la destabilizzazione prodotta in mare dalle rappresaglie degli Houthi e via terra dalla guerra a Gaza e dalle attività delle milizie sciite organizzate dai Pasdaran, ha già prodotto effetti geoeconomici, come per esempio la complicazione del progetto Imec o le discussioni per rifocalizzare il traffico Europa-Asia sulla rotta artica. Sono due ambiti di interesse russo-cinese.

È un quadro che si tiene insieme, sebbene difficilmente assisteremo a dichiarazioni di intenti definitive. Invece la minaccia posta dalle milizie filo-iraniane è più concreta e contingentata. Ieri, 15 settembre, gli Houthi hanno per esempio lanciato un missile a lunga gittata che per la prima volta ha colpito una zona centrale di Israele, anche se senza causare morti, feriti o danni rilevanti (sono state colpite aree aperte nella foresta di Ben Shemen, vicino alla comunità di Kfar Daniel, non distante dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, chiusa per emergenza nella mattinata di domenica). All’inizio il portavoce del gruppo yemenita ha detto che si trattava di un missile ipersonico, e per questo è stato in grado di bucare le difese aeree israeliane. Non ci sono conferme sul tipo di vettore, che potrebbe essere stato anche un “normale” missile balistico. Tuttavia quanto accaduto conferma le capacità degli Houthi di attaccare a 1200 chilometri di distanza.

Se i ribelli yemeniti, diventati famosi perché nell’ultimo decennio sono stati protagonisti di una serie di conquiste territoriali importanti che garantiscono loro  il controllo di mezzo Paese, sono adesso in grado di essere in vantaggio nella guerra civile e poter usare il contesto internazionale per diretta utilità è perché l’Iran ha fornito loro capacità tecniche e tecnologiche. I Pasdaran sono il dante causa degli Houthi, e il coordinamento bilaterale è particolarmente aumentato negli ultimi anni. Precedentemente gli yemeniti erano tra le milizie dell’Asse della Resistenza quelle più indipendenti, ma anche lo spostamento in Siria racconta che le maglie delle interconnessioni sino attualmente fittissime. È invece impossibile definire se gli Houthi agiscono anche come vettori destabilizzanti mossi da Russia e Cina, sebbene ci siano comunione di intenti.

Ma la questione è ancora più ampia e arriva fino al confine con il Libano, dove Hezbollah — che tra l’altro ha aumentato il coordinamento propagandistico con gli Houthi — resta sul piede di guerra. Una guerra soft, che probabilmente il gruppo non intende alzare di livello, per poter così continuare a colpire Israele senza subire pesanti conseguenze. Nei giorni scorsi per esempio il gruppo creato decenni fa a Beirut dai Pasdaran ha attaccato con droni e missili la base di Filon, in Galilea. I libanesi colpiscono e vengono colpiti, ma non alzano il livello dell’ingaggio anche perché una guerra aperta porterebbe troppo in là il livello di coinvolgimento. Anche per l’Iran, che sarebbe quasi costretto a quel punto a intervenire direttamente contro Israele: questo significherebbe che il sistema di proxy che accerchia lo stato ebraico e ha costruito capacità di influenza e deterrenza iraniano verrebbe meno alla sua funzione tattico-strategica essenziale — fornire all’Iran spazio di manovra, la cosiddetta plausible deniability, per curare i propri interessi, anche militarmente, ma senza guerreggiare.

E però il livello dello scontro, dopo undici mesi di destabilizzazione, si sta alzando. Mentre questa settimana Donald Trump parlerà all’Israel-America Council, il governo di Benjamin Netanyahu si riunirà per definire i piani di guerra contro Hezbollah, e contemporaneamente il super-consigliere per la sicurezza energetica dell’amministrazione Biden, Amos Hochstein sarà a Beirut e Tel Aviv proprio per parlare dei rischi di una guerra contro Hezbollah (dunque contro l’Iran), che i Democratici americani vogliono assolutamente evitare (e per questo hanno spostato nella regione due portaerei e migliaia di nuovi soldati: intendono mandare messaggi ai forniti sulle potenziali conseguenze, ma spesso vengono ignorati). Trump è promotore invece di una linea che arriva a sostenere la necessità per Israele di un attacco preventivo contro la Repubblica Islamica, perché lo stato ebraico ha diritto alla sua sicurezza e non può più vivere in uno stato di emergenza esistenziale costante, accerchiato com’è dai nemici — questo lo sostiene anche Netanyahu ed è uno dei pochi, ma cruciale, punti di contatto che gli sono rimasti con le collettività israeliane.

Nei giorni scorsi, tornando più sul pratico, le forze di élite israeliane hanno compiuto una rarissima operazione terrestre in Siria, a sud di Masyaf, non lontano dal confine libanese. Là, secondo le informazioni non ufficiali circolanti, avrebbero smantellato una struttura sotterranea in cui i Pasdaran e Hezbollah producevano armi sofisticate da fornire ai miliziani antisemiti. Nel raid avrebbero ucciso i militari siriani a guardia del posto e rapito gli iraniani e libanesi. È possibile che le catture si leghino anche alla volontà israeliana di avere qualche informazione in più su ciò che sta avvenendo attorno ai propri confini, perché come ha dimostrato l’attacco di Hamas dello scorso ottobre, non sono mai sufficientemente sicuri.

Che ci sia stia muovendo verso una nuova fase del conflitto lo aveva anticipato anche Giuseppe Dentice (CeSI) nel punto fatto con Formiche.net in occasione dell’undicesimo mese di guerra a Gaza. È in corso un’evoluzione che probabilmente attende il voto americano per lo scatto di ingranaggi più strategici, ma che intanto dimostra dinamiche tattiche preparatorie — che passano anche dal rafforzamento di Hamas e Iran in Cisgiordania.

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