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La Groenlandia non è in vendita sarebbe stato il succo della risposta della premier danese, Mette Frederiksen, alla (sgradita) telefonata di Donald Trump di una settimana fa. Che ci è rimasto male. Di questi tempi non è abituato a sentirsi dire di “no”.  E noi europei non ci siamo ancora abituati a prenderlo sul serio. Forse è ora di cominciare a farlo. Certo, dopo 45’ di colloquio (“orrendo”) che aprono una crisi fra Washington e Copenaghen, i danesi non possono farne a meno. Ma tutti noi europei dovremmo farci un pensierino. Perché il neo presidente americano non demorde. Accantonata, forse,  per il momento, la Groenlandia, è passato all’attacco dell’Europa (e di altri, vedi Canada) e non sappiamo come rispondergli.

L’ha appena detto a Davos: l’Europa ci tratta male; venite a produrre negli Stati Uniti; basta col Green Deal, fissazione europea. Col video messaggio al World Economic Forum ha preso di mira gli europei su commercio internazionale, energia, tassazione delle multinazionali e alta tecnologia. L’aggressività di Trump è rivolta non tanto ad avversari e rivali – con Pechino vuole salvare Tik Tok in cambio di un ridimensionamento del ventilato dazio dal 60 al 10%, a Mosca proporre la pace in Ucraina – ma agli amici. Con particolare animosità verso l’Unione europea.

Da presidente, Donald Trump sta andando oltre Donald Trump candidato. Allora non aveva parlato di Groenlandia, Panama, Canada o quantificato in 5% in spese per la difesa la nuova quota sociale della Nato.  Ora, vuole “espandere” gli Stati Uniti; spinge sull’acceleratore dei poteri esecutivi eliminando a tappeto la cittadinanza iure soli incontrando subito la pronuncia di incostituzionalità in primo grado; come molti altri provvedimenti finirà alla Corte Suprema; si vendica del “deep State” con licenziamenti in tronco di dipendenti pubblici, e togliendogli la scorta a ex-collaboratori, persino di fedeli come Mike Pompeo. Le vendette interne sono un problema degli americani colpevoli di non averlo eletto nel 2020, anzi di avergli rubato le elezioni (chissà se farà cambiare i libri di storia, e non solo gli atlanti per rinominare il Golfo “d’America” anziché del Messico). Ma perché prendersela con l’Europa? Per “divide et impera”? Per insofferenza verso i vincoli di multilateralismo e alleanze? Per il deficit commerciale – fisiologico per il Paese più ricco del mondo? Per vendicarsi dell’accoglienza riservata a Joe Biden?

Quali che siano i motivi, probabilmente tutti insieme, l’Europa è sotto schiaffo e sbaglia nel rispondere. Offre ramoscelli d’olivo dichiarandosi pronta a trattare, negoziare, a comprare Lng americano, a spendere di più per la difesa. Aggredita, segnala un’intrinseca debolezza che incoraggia l’aggressore. Non si porge l’altra guancia al nuovo bullo del quartiere. Che pertanto si sente abbastanza sicuro da portare la provocazione da casa propria, nel Campidoglio Usa, a casa dell’aggredito a Davos.

E cosa fa l’Europa? Risponde razionalmente. Se la nuova amministrazione americana solleva controversi su commercio, tassazione, tecnologia, difesa, discutiamone in famiglia transatlantica come abbiamo sempre fatto. Giusto ma non funziona se manca una fondamentale premessa di fiducia nelle nostre posizioni e di volontà di sostenerle, il “non siamo d’accordo” – ad esempio sui cambiamenti climatici e la transizione energetica – ma “parliamone pure”. Solo così ci guadagneremmo il rispetto dell’interlocutore, indispensabile per negoziare seriamente. Nel come rispondere a Trump, Putin docet.

La spesa per la difesa è il tallone d’Achille europeo. Prima di precipitarci a dar ragione a Trump, come ha fatto il segretario generale della Nato, Mark Rutte – sull’irraggiungibile 5% del Pil? – va detto che abbiamo già deciso di spendere di più e lo stiamo facendo (e magari farlo…) ma che, al di là degli impegni presi (2%) e di quelli che potremmo prendere perché necessari (3%?), sono decisioni sovrane nell’interesse nazionale non su istruzioni altrui. In linguaggio diplomatico, naturalmente – che Donald non usa ma noblesse (europea) oblige. E, per inciso, ricordare che abbiamo versato sangue per solidarietà con gli americani – qualcuno ricorda Nassirya? O i caduti, europei, canadesi, australiani, in Afghanistan?

L’Italia, l’Europa, l’Occidente, affrontano oggi un problema America. “Vincere, vincere, vincere” ha detto Trump nel discorso inaugurale. Come un non americano faceva osservare al New York Times un conto è la leadership Usa nel mondo, che ha ispirato le democrazie liberali, un altro “l’America che deve vincere. Significa che tutti gli altri devono perdere”. E quale America? Scorrendo gli ultimi quattro discorsi inaugurali (Obama, Trump, Biden, Trump), su un arco di tempo non certo biblico – 16 anni – ci si domanda se a parlare sia il leader di uno stesso Paese. Gli interessi nazionali, dei quali la politica estera dovrebbe essere la risultante come, con successo americano e occidentale, in mezzo secolo di guerra fredda, che non cambiano certo ogni quattro anni.  Per gli americani, la polarizzazione politica interna ne offusca la coscienza. Per partner e alleati, europei e non, il Paese di riferimento dell’Occidente e delle democrazie dal 1941 è piombato in una sindrome di discontinuità e inaffidabilità.

L’Europa deve porsi tre domande strategiche. Quanto ancora fare affidamento sugli Stati Uniti per difesa e sicurezza del continente – e come e quanto supplirvi sul piano militare (all’interno o al di fuori della Nato?), industriale e tecnologico (Ai in primis). Come definire e negoziare aree di competizione e di cooperazione con Washington. Se e come sia possibile evitare una guerra commerciale Usa-Ue che ci vedrebbe più deboli causa la nostra maggiore dipendenza dall’estero rispetto agli Usa; se non si può evitare, se ci siano alternative e quali. Il primo passo, tuttavia, è rispondere agli attacchi di Trump con fermezza di posizionamento sulle diversità che mette sul tappeto a piè sospinto. Poi dialogare costruttivamente. Poi comprare più Lng. Ma senza inchinarsi preventivamente alla prepotenza del presidente americano. Che non chiede di meglio che lasciarci in ginocchio.

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